Omelia (22-10-2006)
mons. Vincenzo Paglia
Il Figlio dell'uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti

Introduzione

Gesù reagisce vivamente di fronte alla minaccia che pesa ancora una volta sulla sua comunità a causa dell'ambizione sfrenata di avere i primi posti, di conquistare il potere. La sua lezione è molto severa, quasi solenne. Egli propone in compenso una nuova economia sociale: quella di una comunità senza potere la cui sola regola è servire, fino a offrire la propria vita per i fratelli, bevendo il calice fino all'ultima goccia. E per tutti i suoi membri, perché tutti sono fratelli. All'immagine del capo che comanda si oppone quella del capo che serve. Ed ecco che i capi avranno paradossalmente un solo compito: servire. Il suo prototipo è il Messia, diventato piuttosto il Figlio dell'uomo, schiavo di tutti gli schiavi, per il riscatto dei quali egli offre quello che possiede e quello che è: tutto. Perché egli applica una tecnica poco impiegata per guarire la società umana, l'omeopatia: la schiavitù di Gesù e la nostra guariranno giustamente tutta l'umanità dalla sua schiavitù endemica. Egli ha appena formulato il suo progetto di comunità, la sua carta "costituzionale", alla quale tutti i partecipanti devono aderire: ognuno è servitore di tutti.

Omelia

Marco riferisce un dialogo tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo ancora sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù aveva confidato ai discepoli il destino di morte che lo aspettava al termine del cammino. I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del Maestro, e con una notevole durezza di cuore, si fanno avanti e chiedono a Gesù i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l'ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti. Quanto è difficile per Gesù toccare i cuori di quei dodici che pure si era scelti e curati! La verità è che essi sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Non basta, infatti, stargli fisicamente vicino per comprenderlo. È necessario ascoltare ogni giorno la sua parola e seguirlo in un vero e proprio itinerario di crescita interiore. Quante volte, invece, dobbiamo constatare la nostra povertà spirituale, la nostra scarsa sapienza evangelica!
Di fronte alla pretesa dei due discepoli Gesù risponde: "Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?". Gesù vuole spiegare loro le esigenze del Vangelo attraverso due simboli, il calice e il battesimo, che erano ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte. Il calice è il segno dell'ira di Dio, come scrive Isaia: "Levati su, Gerusalemme, che dalla mano del Signore tracannasti il calice della sua ira, la coppa che ti ha stordita" (Is 51, 17); e Geremia dice: "Prendi dalla mia mano questa coppa colma del vino dell'ira, e falla bere a tutti i popoli ai quali io ti mando"(Ger 25, 15). Gesù, con questa metafora, indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte. La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: "Tutte le tue onde e i tuoi marosi si frangono sopra di me"(Sal 42, 8). Insomma, con le due immagini, Gesù mostra che il suo cammino non è una carriera verso il potere. Semmai è l'assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: "Ecco l'agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo".
I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del Maestro e tanto meno ne comprendono il senso. Del resto la parola evangelica, per essere ascoltata e compresa, richiede un atteggiamento di ascolto e di preghiera. Ai due apostoli non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l'assicurazione del posto o comunque l'attenzione alla loro pretesa. E con sciocca semplificazione dicono: "Lo possiamo!". È la stessa faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell'ultima cena, mentre si avviano con lui verso l'orto degli Ulivi (Mt 26, 35). Quella notte basterà solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti. Era ovvio comunque che la richiesta dei due figli di Zebedeo scatenasse l'invidia e la gelosia degli altri discepoli ("si sdegnarono con Giacomo e Giovanni", nota l'evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica. Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno. È istintiva nei discepoli, come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a essere autosufficienti, sino al punto di fare a meno di tutti, persino di Gesù. Per il Vangelo è vero l'esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta. E anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù.
Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: "Sapete che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così". L'istinto del potere - sembra dire Gesù - è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all'interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione (si potrebbe dire che lo stesso Gesù subì la tentazione del potere, quando fu condotto dallo Spirito nel deserto). Non importa che si tratti del "grande" o del "piccolo" potere; tutti ne subiamo il fascino. È normale fare considerazioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico, culturale; e talora è anche necessario. Forse però è più facile fare l'esame di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal "piccolo potere". Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola, o in ufficio, o dietro uno sportello, o per la strada, o nelle istituzioni ecclesiali, o altrove? La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà.
Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: "Tra voi non è così" (forse sarebbe più corretto dire: "non sia così"). Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza. Gesù ha avuto potere ("insegnava come uno che ha autorità", scrive Matteo 7, 29), e lo ha concesso anche ai discepoli ("Diede loro potere sugli spiriti immondi", si legge in Marco 6, 7). Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. Il potere di cui parla il Vangelo è quello dell'amore. E Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma "Chi vuole essere grande tra voi si farà vostro servitore", ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso: "Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti". Così deve essere per ogni suo discepolo.