Omelia (29-10-2006) |
mons. Ilvo Corniglia |
Commento Marco 10,46-52 La parola che il profeta Geremia (31, 7-9: I lettura) rivolge agli ebrei deportati in terra straniera (circa 600 a.C.) è uno dei passi più carichi di speranza dell'A.T. Con immagini suggestive il profeta annuncia l'avvenimento della liberazione:"Ecco li riconduco...e li raduno dall'estremità della terra". Sarà un ritorno dai paesi lontani e un raduno che metterà fine alla dispersione di Israele. Ritorno e raduno non solo spaziale e geografico, ma spirituale, cioè come conversione sincera al proprio Dio e come unificazione profonda del popolo. Un evento cioè gioioso, che suscita la lode esultante dei salvati. Il fondamento, la spiegazione ultima di tale intervento del Signore: "Io sono un padre per Israele". I cristiani sanno che questa promessa Dio ha cominciato ad attuarla attraverso Gesù. Il "ritorno" e il "raduno" dei "figli di Dio che erano dispersi" (cfr. Gv 11,52) è un avvenimento in corso nella Chiesa. Nella misura in cui ne diventiamo consapevoli, facciamo nostro il canto degli ebrei tornati dall'esilio: "Grandi cose ha fatto il Signore per noi. Ci ha colmati di gioia" (Sal. resp.). Canto che Maria ha ripreso nel suo Magnificat applicandolo a sé e a tutta la Chiesa: "Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente". Partecipi del suo giubilo e della sua lode riconoscente, in quest'ultima domenica di ottobre - mese missionario - ringraziamo il Signore in modo particolare per l'annuncio del Vangelo che la Chiesa continua a far risuonare nel mondo. Il brano evangelico riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie nell'ultima tappa del suo viaggio verso la città santa, dove lo attende la morte. La comitiva di Gesù è appunto arrivata a Gerico (che è forse la città più antica del mondo). Il racconto è molto colorito e vivace, ricco di particolari. L'evangelista potrebbe averlo raccolto dalla viva voce di un testimone oculare: forse Pietro, di cui Marco è stato discepolo. La sequenza che scorre davanti ai nostri occhi è incentrata sull'incontro di un cieco con Gesù. Un incontro che è per il disabile la grande svolta della sua vita. Basti cogliere il contrasto fra ciò che "Bartimeo" era e ciò che diventa in seguito all'intervento di Gesù. Prima: un escluso dalla società, incapace di provvedere con le sue forze al proprio sostentamento, non in grado di fare il cammino insieme agli altri, ma seduto al margine della strada. Ora: ci vede, è in perfetta salute e "segue" Gesù come discepolo sulla stessa via che porta a Gerusalemme. Anzi, di tutti i malati guariti da Gesù è l'unico che lo segue. Marco narra una vera guarigione fisica, che manifesta la potenza illimitata di Gesù e la sua misericordia. Nello stesso tempo ci offre sufficienti elementi per cogliere in questo miracolo un chiaro significato spirituale. Il disabile, che si trova in una stato di passività, senza altra prospettiva se non quella di poter sopravvivere grazie alle elemosine degli altri, "sente che c'era Gesù Nazareno". La notizia che sta passando Gesù lo risveglia nel profondo, gli accende in cuore la speranza. "C'è Gesù!": ecco la buona notizia. "Cristo c'è e basta per ogni tempo" (GPII). E' vero anche per me? Il cieco "cominciò a gridare: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Vuole raggiungerlo almeno con la voce. Ha capito che Lui e Lui soltanto può risolvere il problema della sua cecità. Ecco perciò l'invocazione insistente e ostinata, nonostante i rimproveri di molti tra la folla per i quali il grido rivolto a Gesù da parte di un povero è giudicato una stonatura inopportuna, un disturbo. In realtà l'invocazione del cieco è già una professione di fede, perché riconosce Gesù come "Figlio di Davide" (che era un titolo popolare del Messia). Inoltre nel Vangelo di Marco solo il cieco chiama Gesù per nome (a parte i demoni, ma con ben altro significato: cfr. Mc 1,24; 5,7). Tale invocazione esprime rapporto personale, familiarità, ma anche venerazione e fiducia nella potenza dell'Inviato di Dio e nella forza del suo nome ("Gesù"= il Signore salva), l'unico nome che salva (cfr. At 4,12). Ha più fede della folla. Lui cieco vede in Gesù ciò che gli altri, i vedenti, non sanno vedere. Il suo grido non sfugge a Gesù. "Si fermò e disse: Chiamatelo!" Egli non è insensibile, ma si interessa prontamente: desidera un incontro personale col cieco. E vuole coinvolgere anche gli altri nell'attenzione al disabile. E' come una "vocazione": si noti come dentro un solo versetto ricorra tre volte il verbo "chiamare". A questo punto i presenti assecondano l'invito di Gesù e condividono il suo interesse per il cieco, facendosi tramite della chiamata: "Coraggio! Alzati, ti chiama!" La risposta del chiamato è "scattante": "getta via il mantello" (l'unica sicurezza che ancora gli rimane) per essere più libero di correre da Gesù. Quando Egli chiama - e lo fa sempre per liberare e rendere felici - non si può indugiare, ma occorre "balzare in piedi" e non lasciarsi bloccare dalla...massa indifferente o mossa soltanto da interesse superficiale, ma non disposta a seguire Gesù. Nel dialogo che si snoda rapido ed essenziale, alla domanda incoraggiante di Gesù il cieco risponde manifestandogli quanto gli sta a cuore: "Rabbunì, che io riabbia la vista!". Anche il nuovo titolo con cui si rivolge a Gesù è molto personalizzato. Marco lo riporta nella lingua parlata allora e non si preoccupa di tradurlo. Propriamente significa: "Maestro mio!". C'è già in questa espressione la sua disponibilità a diventare discepolo. Gesù pronuncia una parola efficace: "Va'". Lo invita cioè ad abbandonare la sua inerzia forzata e nello stesso tempo gli dona la libertà di movimento. Poi lo assicura: "La tua fede ti ha salvato". Riconosce nelle parole e nel comportamento del cieco la condizione perché si compia il miracolo: la fede. In questa risposta di Gesù si coglie la sua gioia nel costatare in una persona questa presenza della fede, come gli era accaduto altre volte (cfr. es. Mc 5,34; Lc 7,50 e 17,19). E' così essenziale la fede che Gesù quasi la personifica attribuendole la forza di guarire, anzi di "salvare". E' Gesù che salva ovviamente. E salva nel senso che non guarisce soltanto gli occhi spenti del cieco, ma l'uomo intero e gli dona una salvezza che supera immensamente la riacquistata efficienza fisica: gli dona un rapporto profondo di comunione con Dio (=la fede piena). Il segno appunto di questa "salvezza" è il ricupero della vista, ma anche e soprattutto il fatto che il cieco guarito "prese a seguirlo per la strada". Cioè decide di legarsi a Gesù, condividendo il suo cammino e quindi il suo destino in qualità di discepolo (il verbo "seguire" caratterizza il discepolo di Gesù). Allora la vista ricuperata è segno del dono della fede. Fede che era iniziata quando il cieco aveva invocato Gesù e ora ha raggiunto la sua maturità. Credere è "vedere" chi è Gesù, ma soprattutto è "seguire" il Crocifisso. In effetti, durante il viaggio verso Gerusalemme Gesù ha cercato costantemente di educare i discepoli a riconoscerlo come il Messia che salva attraverso l'amore che si fa servizio fino alla morte, condividendo le sue scelte e il suo stile di vita. Ma ha incontrato sistematicamente la loro resistenza, la loro ottusità e incomprensione, la loro "cecità". Ecco però la guarigione del cieco. Tale miracolo contiene l'appello a ravvivare la fede in Gesù, ripercorrendo l'itinerario del cieco fino al pieno incontro con Lui. Ma, più ancora, il miracolo assicura che la "cecità" può essere guarita. C'è il medico che ridona la vista ai ciechi, cioè la luce della fede, rendendo capaci di "seguirlo" da veri discepoli. In questo racconto possiamo rileggere la nostra storia. Il cieco è ognuno di noi ed è l'umanità. L'uomo seduto sul ciglio della strada non evoca forse l'umanità nelle tenebre, lontana dalla salvezza? Gesù continua a passare e a chiamare liberando dalla cecità spirituale (quanti ciechi, che hanno smarrito il senso della vita!). Lo fa attraverso la comunità cristiana. Con la parola e con la vita noi possiamo dire a tanti ciechi (che forse non gridano...ma aspettano inconsciamente il Salvatore: lo sappiamo?): "C'è Gesù! Coraggio! Ti chiama. Ti vuole guarire". Ma prima ancora siamo noi che rischiamo di ritrovarci ciechi, seduti e fuori strada. E anche a ciascuno di noi Gesù domanda: "Che cosa vuoi che io faccia per te?...Sono qui a tua disposizione". E noi sentiamo il bisogno di essere illuminati, salvati? Facciamo nostra l'invocazione del cieco: "Gesù, abbi pietà di me...Che io veda!"( cioè che io possa credere). Perché non dirglielo anche a nome di familiari, di amici, di ogni uomo? |