Omelia (29-10-2006)
don Fulvio Bertellini
La luce della fede

"Va', la tua fede ti ha salvato". Gesù non dice "Io ti salvo", e neppure "Il Padre ti salva", ma "la tua fede". E' sottinteso che si tratta della fede in Gesù, come di colui che manifesta l'amore del Padre. Ma nello stesso tempo è la fede che appartiene a Bartimeo, che fa parte della sua persona - o meglio: per fede tutta la persona di Bartimeo si appoggia a Gesù, si affida a lui; e può così essere trasfigurata da questo incontro. Diciamo trasfigurata, e non solo risanata: Bartimeo diventa una persona nuova non solo perché ci vede, ma anche perché comincia a seguire Gesù, diventa suo discepolo.

Il punto di arrivo

La guarigione del cieco è posta dall'evangelista al termine del cammino di Gesù verso Gerusalemme: Gerico dista una giornata circa di cammino dalla città santa, e secondo il racconto di Marco viene rapidamente attraversata da Gesù. Solo mentre Gesù sta partendo avviene l'incontro con Bartimeo. Marco intende concludere con quest'ultimo miracolo quella fase del Vangelo che si era aperta a partire dal capitolo 8, dopo il riconoscimento da parte di Pietro. Una sezione ritmata dai vari annunci della Passione. Il risultato appare piuttosto sconfortante: nessuno ha capito in profondità il mistero di Gesù che deve manifestarsi a Gerusalemme. I discepoli non lo comprendono, men che meno le folle. I discepoli e la folla che accompagnano Gesù, nei riguardi del suo mistero, sono come ciechi. Non ci sarà nessuno che saprà "vedere"?

Come aprire gli occhi: povertà

Si tratta dunque di un racconto chiave, che getta una luce di speranza e induce il lettore a ripercorrere con più avvedutezza il cammino dei discepoli: Marco vuol mostrare che cosa è decisivo per credere. E la prima notazione è che si tratta di un povero, di un mendicante. Privo di denaro e privo anche dell'appoggio familiare. Viene citato il padre, ma non compare nella narrazione: a quanto pare, non dà nessun aiuto al figlio sfortunato. Bartimeo addirittura, se vogliamo essere precisi, non ha neppure un nome (in aramaico Bar-timeo significa "figlio di Timeo"). E' totalmente ai margini della società. Si contrappone dunque al tale ricco che vuol conoscere il segreto della vita eterna, ma anche ai figli di Zebedeo, assidui promotori della propria identità; Bartimeo è una figura di contrasto rispetto a tutti coloro che si muovono attorno a Gesù nei capitoli precedenti.

L'ascolto e il grido

Bartimeo sente dire che passa il "nazareno". Ma grida "figlio di Davide". Sente parlare di Gesù, per interposta persona. Ma non gli basta: si appella direttamente a lui. Riceve informazioni riduttive ("nazareno" non era certamente una qualifica onorifica, e conteneva una punta di disprezzo nei confronti dei galilei, considerati ebrei di serie B), ma reinterpreta il tutto in senso più ampio: "figlio di Davide" è chiaramente un titolo messianico. Il cieco vede e decodifica là dove la folla si accontenta di una chiacchiera superficiale. E ha il coraggio di gridare la sua invocazione. Capisce che Gesù è qualcosa di più che il "nazareno". Ma non si limita a capire: lo grida, lo invoca, anche contro coloro che vorrebero farlo tacere.

Anche da testimoni spuntati

Qui vediamo tra l'altro che la scintilla della fede può germogliare anche a partire da un annuncio sbagliato, insufficiente, svogliato. Anzi, potremmo dire che l'annuncio è sempre in qualche modo insufficiente, sproporzionato (negativamente) rispetto al suo oggetto. E' proprio della fede autentica passare oltre anche rispetto a quest'ostacolo. Anche se grossa è la responsabilità di chi diventa inciampo alla fede dei piccoli. Bartimeo viene "sgridato" (la parola in greco è la stessa) allo stesso modo con cui erano stati sgridati coloro che portavano i loro bambini a Gesù. Forse tra i "molti" che sgridano il mendicante, c'erano anche alcuni dei disceoli che avevano sgridato i bambini...
Solo dopo molti tentativi
Gesù non risponde subito al grido del cieco. E stranamente non gli va incontro. Neppure si rivolge a lui direttamente: lo fa' chiamare (dagli stessi che lo avevano intimato di tacere?). Sembra scortesia, invece è già l'inizio della guarigione. Il cieco getta via il mantello, e con esso la propria insicurezza. Con le sue gambe raggiunge Gesù. Non è un atto di autosufficienza, è un atto di fede (provate a camminare al buio ad occhi chiusi o bendati...). Gesù continua a provocare la fede del cieco, fino alla richiesta decisiva: in cui peraltro sembra quasi non intervenire, ma si limita a constatare l'avvenuta guarigione "la tua fede ti ha salvato". Il cieco ha ascoltato, ha riconosciuto, ha gridato, ha avuto ragione di chi pretendeva di farlo tacere, si è liberato di ogni suo possesso e al buio ha raggiunto Gesù. E dopo esser guarito, riconosce in quell'umile maestro di Nazaret il figlio di Davide, signore del mondo. E noi? In che cosa consiste la nostra fede? Si limita a ripetere vuote chiacchiere su Gesù? Sa oltrepassare gli ostacoli? Sa invocare fino al grido? Sa spogliarsi del superfluo? Sa arrivare fino all'incontro con il Salvatore?


Flash sulla I lettura

"Innalzate canti di gioia per Giacobbe": la prima parte del libro di Geremia è tutta imperniata sulla denuncia del peccato del popolo e sull'annuncio del destino tragico di Gerusalemme. Al capitolo 30 comincia una nuova sezione, caratterizzata dalla speranza e dalla gioia del ritorno. Sono i due aspetti fondamentali della vocazione profetica: smascherare il male quando tutto sembra andare bene; annunciare la speranza dove tutto sembra andare a rotoli. Nel convegno di Verona la Chiesa italiana ha riscoperto la necessità di vivere la dimensione profetica della propria vocazione battesimale. Tutti sono chiamati ad essere testimoni, tutti sono chiamati, a loro modo, a rendere una testimonianza profetica. Che nelle nostre condizioni attuali comporta SIMULTANEAMENTE messaggio di denuncia e messaggio di speranza. Se siamo attenti ai messaggi che ci provengono dal "mondo", vedremo che il messaggio di denuncia generalmente è recepito (e provoca reazioni). Non altrettanto la speranza... La lettura delle antiche profezie ci provoca a trovare i modi più adatti per dire parole buone e di pace, che non suonino false.


Flash sulla II lettura

"Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne": il sommo sacerdozio era la massima istituzione religiosa (e dopo l'esilio anche con valenze politiche) in Israele. Chi scrive la lettera agli Ebrei ha in mente le feroci lotte per l'attribuzione del sommo sacerdozio che erano avvenute nei secoli precedenti. La frase ha dunque anche una certa carica polemica, e prepara la novità teologica sorprendente che viene qui enunciata: anche Cristo, pur non essendo discendente di Aronne, è sommo sacerdote.
"Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melkisedek": nei capitoli precedenti è stato mostrato come la morte e resurrezione di Gesù lo abilitano a compiere un ministero di tipo sacerdotale. La citazione del salmo 109 completa l'argomentazione: esiste un sacerdozio diverso, non secondo Aronne, ma secondo Melkisedek, più antico del sacerdozio levitico.


Impariamo a pregare con il salmo

"Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion": il salmo si presenta come una riflessione e un bilancio dell'esperienza del popolo dopo il primo ritorno degli esuli da Babilonia. Un evento che poteva sembrare irrilevante nel quadro geopolitico del tempo diviene un grande avvenimento visto con gli occhi della fede.
"Ci sembrava di sognare. La nostra bocca si aprì al sorriso...": in realtà si trattava di un fatto abbastanza sorprendente, che poteva avere i contorni dell'incredibile. Nel mondo antico le deportazioni avevano lo scopo di estinguere completamente la memoria e l'identità di un popolo. L'annientamento militare poteva comportare l'annientamento culturale. Soprattutto per un popolo piccolo e limitato come quello degli Israeliti, che non poteva vantare un territorio della vastità dell'Egitto e una storia millenaria di predominio e potenza militare.
"Il Signore ha fatto grandi cose per loro / grandi cose ha fatto il Signore per noi": come in un canto a più voci, la parola viene data alle genti (che diventano anch'esse partecipi della lode a Dio) e poi ritorna a Israele, che non smette di esaltare le grandi opere di Dio. Abbiamo qui a che fare con un componimento fortemente "emozionato". L'emozione fa da padrona, dall'inizio alla fine. La stessa emozione di cui oggi noi vediamo l'abuso mediatico: emozioni a buon mercato imperversano nei talk-show, nei reality, perfino nei telegiornali, e anche il partecipante al più stupido giochino regalasoldi proclama "E' stata una grande emozione aver partecipato". Forse un po' gelosi di questo, alcuni preti e operatori pastorali fanno fatica ad accoglierla nelle liturgie, negli incontri, nelle catechesi. Altri invece abusano di emozioni, ritenendo riuscita l'evangelizzazione perché ha suscitato un buon coinvolgimento emotivo. La via giusta non è la via di mezzo, ma è una via differente, che si stacca dalla fredda razionalità, e mette alla prova l'emozionalismo facile.
"Chi semina nelle lacrime, mieterà con giubilo": coloro che possono raccogliere il frutto della gioia sono coloro che hanno accettato la sofferenza dell'esilio, che hanno resistito nei momenti di buio. Coloro che si sono fidati di Dio anche quando, sia razionalmente, sia emotivamente, sembrava impossibile sperare.