Omelia (02-11-2006)
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Commento su Matteo 25,31-46

* Due novembre, giornata dei morti, giornata della memoria in cui si pensa a coloro che non ci sono più, giornata del ricordo in cui si va in visita ai cimiteri e a volte si riflette sulla propria morte futura... Due novembre, giornata in cui la Chiesa commemora i fedeli defunti, persone che hanno vissuto cercando di condurre un'esistenza alla sequela del Signore e persone che sono morte riponendo in Lui ogni speranza.
Ognuno di noi, indipendentemente dal suo credo religioso, ha due certezze in questo momento: il fatto di essere vivo in questo preciso istante ed il fatto che morirà.
La morte è esperienza che vivremo sicuramente (diceva il filosofo francese Montaigne che il momento stesso in cui siamo nati abbiamo iniziato il cammino verso la nostra morte: la nascita è una pre-condizione per la morte...).
Della morte degli altri alcune cose le sappiamo perché le vediamo e le possiamo osservare: non c'è più il movimento, il morto è una persona che non parla, che non si muove più, è un corpo freddo, è un essere inerte, è carne che si decompone, è assenza da questo mondo per l'eternità.
Quella persona che abbiamo amato, conosciuto, incontrato, che ci è stata amica, nemica, simpatica o antipatica, di cui sappiamo vagamente l'esistenza o con cui abbiamo condiviso esperienze ed emozioni non è più presente ai nostri sensi. Non è più, non esiste: improvvisamente è scomparsa.
La sua unicità può essere impressa in noi nel nostro cuore, nella nostra memoria, nella nostra mente ma la morte sembra più forte: la persona non c'è e mai più tornerà.
Questa potrebbe essere la morte in un'ottica scissa dalla fede: qualche cosa che non può essere superato, se non dal ricordo che ha un limite preciso, essendo legata all'esistenza di chi ricorda è destinata a scomparire... Avete mai pensato a tutte le generazioni che ci hanno preceduto? Chi ha più memoria delle persone comuni; di coloro che non sono diventati celebri?
Tutta un'umanità che è andata avanti, lungo il corso dei secoli, vivendo, amando, riproducendosi, esistendo con le sue speranze e le sue sofferenze, le sue convinzioni ed i suoi errori, le sue caratteristiche.
Di tutta quest'umanità nel corso delle generazioni spesso si smarrisce la memoria... i singoli individui potrebbero non essere esistiti mai... la loro unica traccia spesso sono solo i discendenti o coloro che, a vario titolo, ne hanno raccolto l'eredità spirituale.
Per quanto riguarda la nostra morte è esperienza ancora più misteriosa non ne conosciamo, mentre viviamo, le modalità (non sappiamo come moriremo e non sempre quando avviene lo capiremo) né conosciamo i tempi (cfr Marco 13, 33-37) non ci assisteremo: saremo protagonisti ma non ci vedremo morti.
Rispetto ad essa possiamo avere tanti atteggiamenti: essere consapevoli, rifiutare l'idea (spesso ci sono persone che vivono "facendo finta di niente"), avere paura, accettarla, rassegnarci o rigettarla... In realtà è tutto uguale: qualunque cosa pensiamo della morte questa avverrà comunque indipendentemente dal nostro volere... E possiamo essere cristiani.

Il cristiano e la morte
* Rispetto alla morte (e alla vita) noi abbiamo però una scelta: il credere in Cristo e alla Pasqua. Come argomenta Dietrich Bonhoeffer, "Pasqua non è questione di immortalità, ma di risurrezione, risurrezione dalla morte che è veramente una morte coi suoi orrori e spaventi, una morte del corpo e dell'anima, dell'uomo nella sua interezza, in virtù dell'azione potente di Dio: ecco il messaggio pasquale, pasqua non è questione di semi divini dentro l'uomo che come in natura celebrano una risurrezione che sempre si rinnova ma è una questione di colpa degli uomini e della morte, e anche dell'amore di Dio e della morte della morte, dell'eterna azione potente di Dio".
Il cristiano è colui che crede non che la morte non esiste, ma che in Cristo è stata superata, è colui che è nel suo cuore (e non solo formalmente crede nel Risorto).
Questo non comporta "un effetto camomilla", una calda rassicurante certezza, un drogare la propria esistenza con illusioni come alcuni talvolta sostengono. Anzi è esattamente il contrario: Il cristiano è colui che ha capito che ogni momento moriamo un po', ogni giorno con la nostra vita, con le nostre scelte prepariamo la nostra eternità.
Il cristiano è uno (anche se a volte può non sembrare...) che si impegna a vivere una vita alla luce della propria morte. E' uno per forza capace di fare delle scelte coraggiose e fuori dall'ordinario perché crede in un Signore che è capace di nascere in una grotta e di morire su una croce. Crede in un Dio che rinuncia alla sua trascendenza per farsi compagno di cammino di tutti quelli che in lui confidano e sperano. Crede in Dio che con misericordia lo giudicherà: "Quando il Figlio dell'uomo verrà nella gloria" - dice il Signore - "saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra". (Mt 25, 31-33). Saremo separati in due categorie ci dice Gesù utilizzando la similitudine bucolica del pastore. I capri, coloro che hanno agito per conto loro e le pecore, coloro che hanno seguito la voce del "buon pastore". Poi all'interno delle due categorie il giudizio sarà individuale, riguarderà il singolo. D'altronde come si nasce e si muore da soli (anche se si può essere circondati da altri per entrambi gli eventi), si è giudicati singolarmente: soli davanti al Signore ognuno di noi con la sua individualità, con la sua unicità, con le sue virtù e i suoi peccati. E su cosa si è giudicati? Non sulla religiosità, non sull'assiduità nella preghiera, a volte ci sembra che se siamo giusti, buoni, ligi, bravi, bigotti abbiamo diritto a guadagnarci la vita eterna. Gesù nel vangelo proclamato oggi come tante altre volte nella Parola ribalta le certezze nostre (e dei discepoli che lo ascoltavano):
"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi... In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me"
(Matteo 25,34-36.40). Gesù ci indica che la costruzione del Regno non è una realtà astratta. Non sono comportamenti moralistici o moralizzanti. Il Regno si costruisce qui ed ora con scelte concrete.
Allora forse ognuno di noi dovrebbe pensare di calare nella propria realtà le parole di questo Vangelo magari riflettendo sulla base di alcune domande che scaturiscono da questa Parola o meditandone altre...

* Chi sono gli affamati che conosco?
La fame a volte può essere fame materiale (è inutile ricordare che l'occidente monopolizza parte delle risorse della terra e che il nostro tenore di vita è spesso eccessivo) o fame morale (quante persone sole ognuno di noi conosce? quanti bisogni espressi ed inespressi ci circondano? Quante persone senza speranza incontriamo?).
E chi conosco che ha sete?
A me la sete, più che la mancanza di acqua (ma potremo forse pensare anche a quella laddove in molti paesi di questa terra l'acqua scarseggia...) evoca la beatitudine "coloro che hanno sete di giustizia". Quali situazioni ingiuste conosco? E quanto mi adopero perché cessino? L'ingiustizia fatta ad un altro è fatta anche a me?
Su "ero forestiero e mi avete ospitato" si potrebbe ragionare per ore. Qualche anno fa c'era un articolo di fondo, secondo me stupendo, su "Famiglia Cristiana" che è stato scritto dopo che un numero elevato di persone extra comunitari sono morti, inghiottiti dal mare, mentre tentavano di entrare clandestinamente in Italia su un barcone.
L'editorialista confutava tutti i ragionamenti di quei giorni apparsi sulla stampa in favore o a sfavore degli immigrati sviluppando un semplice ragionamento: chiunque è cattolico ancora prima di ogni considerazione razionale ha un unico fondamento con cui confrontarsi: "ero forestiero e mi avete ospitato". Tutto il resto sono chiacchiere inutili.
"Nudo e mi avete vestito": questo attualmente è un po' meno usuale... ma basterebbe pensare alla nostra opulenza nel vestire, nell'ostentazione e a volte nell'inutilità del possedere il capo firmato, il gioiello in più, l'oggetto di lusso. I beni materiali li abbiamo solo in uso per il periodo che stiamo su questa terra, l'accumularli oltre i nostri bisogni reali, il non dividere con gli altri è in qualche senso, estremizzando, togliere. Quindi il "vestire" potrebbe essere sapere dividere con gli altri i beni e vivere con uno stile sobrio che è all'insegna dell'essere non dell'avere.
Infine due condizioni di debolezza: malattia e carcere. Ragioniamo intanto sulla malattia fisica, malattia viene rimossa perché spaventa: la nostra società produttiva e consumistica rigetta l'idea della malattia e della morte. Certo esistono tante associazioni di volontariato ospedaliero. Ma se una persona che conosciamo sta male andiamo a trovarla? E preghiamo per i malati? Com-patiamo (nel senso etimologico della parola) la sofferenza loro e delle loro famiglie?
Anche per i carcerati (quelli che stanno fisicamente nelle prigioni) esistono dei bravissimi volontari... e poi il mondo dei carcerati è spesso lontano dal nostro... e poi sono delinquenti... e poi... "carcerato e siete venuti a trovarmi".
In realtà tutto si compendia in un solo termine: carità.
Il Signore della carità ci chiede di essere caritatevoli coi nostri fratelli.
Questa è la strada per la nostra salvezza.
La strada che ci indica Gesù: "Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il fratello" (1 Giovanni 4, 23).
A conclusione di questa riflessione aggiungerei che nella carità c'è anche il ricordare nelle preghiere i fedeli defunti: in questo giorno è essenziale questo legame fra noi, la chiesa dei viventi e la chiesa di chi è già in Dio. Questo infatti non è solo culto ma vivere la Comunione dei Santi.
* Ho esordito questa mia riflessione con la considerazione che ogni essere umano ha due certezze. Di essere vivo ora, e di morire. Penso di potere concludere che il cristiano ha due certezze: l'esistenza della Trinità e il dover rispondere a Dio del suo operato.
Quando saremo davanti a Lui ci presenteremo con la nostra povertà, confidando nella Sua misericordia e nella sua pietà, sperando di sentirci dire:
"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".
Preghiamo il Signore di essere, nella nostra vita, segno della Misericordia che chiediamo per noi stessi. Il Signore ci conceda questa grazia.