Omelia (19-11-2006)
padre Gian Franco Scarpitta
Al di là del linguaggio...

Terribile linguaggio traspare dalle pagine della Scrittura appena ascoltate! Si descrive una serie di avvenimenti catastrofici che dovranno incombere sulla nostra terra, una metamorfosi degli eventi della natura e l'apparire di ulteriori eventi terrificanti che precedono la fine della storia umana e il giudizio di Dio, che si rivela altrettanto inquietante. Verrebbe da domandarsi come conciliare questa serie di eventi che ci minacciano con la dottrina più volte propugnata da parte nostra del Dio buono e misericordioso.
Prima di affrontare un qualsiasi tentativo di risposta, ci premuriamo innanzitutto di sottolineare che, quando si vogliano ottenere dei risultati sul campo pedagogico e formativo, o quando si tende ad ottenere qualsiasi cosa da un nostro interlocutore il ricorso ai rimproveri, alle minacce, le percosse o ad altro espediente atto ad incutere il timore della pena è sempre esiziale e controproducente: non è a furia di ricorsi minatori che si otterrà corrispondenza dal nostro interlocutore; piuttosto, nonostante le apparenze, si otterrà l'effetto contrario nel suo perenne condizionamento che gli incuterà la paura perenne di sbagliare, e con questa anche l'inizio della disfatta visto che il timore di commettere errori conduce ad errare sul serio. E neppure sottolineando continuamente gli errori degli altri o ricorrendo a continui e d assillanti rimproveri ci mostreremo mai dei veri pedagoghi o agenti di correzione fraterna.
Nel campo della formazione bisogna piuttosto dare fiducia al formando, evitando di inveire troppo nei suoi confronti quando questi sbaglia e ricorrendo al dialogo e allo spirito di persuasione, giacché è importante che comprenda da se stesso l'entità degli sbagli che ha commesso o che potrebbe commettere. Solo quando si sono esaurite tutte le altre alternative vanno messi in atto i sistemi punitivi o di riprovazione.
Se questo è un concetto ben condivisibile da tutti anche perché dettato dall'esperienza, come potrebbe un Dio capace di farsi perseguitare e uccidere in croce mostrarsi così torvo e aggressivo nel confronti dell'uomo che intende salvare a tutti i costi? Un Dio fattosi uomo per la nostra salvezza che ha mostrato la sua infinita misericordia nel sanare i lebbrosi e altri ammalati, nel resuscitare i morti, cacciare i demoni dagli ossessi e praticare moltissime altre opere di bontà, come potrebbe anche solo intimorire l'uomo con le minacce svenevoli della distruzione apocalittica?
E' allora necessario che i termini adoperati in queste pagine debbano avere solo un valore del tutto simbolico, tipico dell'escatologia apocalittica dell'Antico Testamento che tuttavia, dietro l'apparenza di descrizioni terrificanti intende in realtà richiamarci alla speranza e alla fiducia.
Noi attendiamo sì un giudizio finale che porrà termine al nostro quotidiano nella resurrezione finale dei morti, tuttavia ci appropinquiamo verso di esso con le disposizioni di chi si ad un incontro pacifico e disinvolto con il Signore che avremo intanto riconosciuto nella fede: lo stesso Signore che stiamo sperimentando come nostro amico e confidente nei giorni del nostro frattempo dell'oggi, che abbiamo imparato a riscontrare come certo ed esistente nella preghiera, nei sacramenti e nella carità operosa e fruttuosa, ci attenderà alla fine dei tempi e noi lo incontreremo nella gioia e nell'esultanza, recando fra le mani i frutti copiosi della nostra continua fedeltà a lui.
Al di la' del linguaggio apocalittico vi è quindi il monito categorico e lampante alla speranza, cioè all'attesa del Signore che verrà certamente nella gloria e mostrando la sua indiscussa supremazia ma per ciò stesso anche nella gioia di poter instaurare un incontro tattico e visibile con ciascuno di noi, forti del bene che avremo compiuto e del male che avremo evitato nel corso dei nostri giorni.
L'attesa dell'incontro finale è una speranza attiva e produttiva che allontana di gran lunga l'idea dell'inerzia e della passività angosciosa: attendere questo grande giorno vuol dire infatti adoperarsi al momento come se esso dovesse arrivare da un momento all'altro e come se stessimo aspettando un ospite importante da accogliere con tutti i riguardi e le attenzioni. La speranza impone quindi la gioia e lo zelo operativo soprattutto nella carità che è il vincolo di perfezione e che guadagnerà moltissimi meriti nel giorno stesso del giudizio e non coincide affatto con la fuga e il rifiuto di questo mondo come erroneamente lasciano intendere non pochi movimenti settari. Al contrario suppone impegno in questo mondo per la realizzazione del Regno su questa terra, lo stesso di cui avremo visione futura.
Ci soffermiamo inoltre su questa famosa frase: "Vegliate dunque perché non sapete né l'ora". Non ci è dato insomma conoscere il momento esatto di questo incontro definitivo con il Signore, anche se dai tempi più remoti della Chiesa vi è stato chi ha tentato di pervenire ad una data; non soltanto nell'ambito delle nuove religioni ma anche in ambito cattolico vi è stato chi ha voluto determinare il giorno della fine sulla base di alcuni elementi plausibili. Eppure la misconoscenza del giorno ultimo è molto più conveniente e proficua rispetto all'illusione di una data che soddisfi le nostre attese immediate. Non conoscere il giorno né l'ora infatti è di sprone alla virtù continua, disinteressata e senza scadenza che non risulterebbe tale di fronte ad una data di calendario. Sì è meglio così: lasciare che sia Lui il solo a conoscere e a rivelare il tempo della fine e intanto prodigarci nel bene e nello zelo suddetti animati dalla buona volontà che scaturisce dal Regno.