Omelia (19-11-2006) |
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Il mio destino sta nelle tue mani * Siamo giunti agli ultimi giorni dell'anno liturgico. Ma si sa, chi oggi nella nostra società organizza i suoi giorni sui ritmi dell'anno liturgico? Tuttavia, per il cristiano che partecipa con convinzione alla messa domenicale e segue il cammino della parola di Dio, queste ultime domeniche offrono l'opportunità di una riflessione profonda, tutt'altro che slegata dalle preoccupazioni quotidiane di ciascuno di noi. Ogni anno l'anno liturgico ci fa ripetere una sorta di "giro", ci fa rivisitare i misteri della vita di Gesù. Uno di questi misteri ha a che vedere con la questione della "fine". Gesù è Dio in carne umana: è l'infinito che ha scelto di entrare nel tempo e nello spazio e sottomettersi ai loro limiti. E così, come ogni uomo, ha fatto i conti con la fine della sua vita terrena. Durante la sua vita pubblica, man mano che il tempo passava e la sua predicazione toccava gli interessi e la sensibilità delle persone influenti, ha capito che se voleva restare fedele alla sua missione avrebbe dovuto mettere in gioco la sua vita: e così è stato. Durante i giorni che precedevano la Pasqua (probabilmente quella dell'anno 30 della nostra era) il cerchio si è stretto attorno a lui. È in questo contesto che i vangeli riportano le sue parole sulla fine, che sono una sintesi delle parole dei profeti e della sua originale esperienza di uomo-Dio. Gesù è l'uomo che può parlare della sua fine e contemporaneamente della fine del mondo, perché la sua vita è l'evento centrale della storia e della creazione. Quello che succede nella fine di Gesù è la manifestazione (anticipata) della fine della storia tutta e di ciascun figlio di essa. In questo modo Gesù ci ricorda che la fine del mondo è per ciascuno di noi anticipata nella nostra fine, cioè la morte. Non è argomento astratto o inutile parlare della fine, perché essa ci aiuta a sapere verso dove camminiamo, per quale finalità facciamo quello che facciamo, e così ci aiuta anche a distinguere quello che vale la pena fare e quello che non è poi così importante. Molte culture oggi tendono a escludere questi discorsi, cercano di nascondere la morte, come per negare che siamo esseri "finiti": esseri, cioè, costituiti dall'inizio come in cammino verso una fine e verso un fine, che ci caratterizza. Chi dimentica questo (o peggio ancora chi lo nega nascondendolo) rischia di perdere di vista chi è e perché sta in questo mondo. Le culture più antiche (come quella africana in cui mi trovo a vivere come straniero) hanno un rapporto molto diverso con la fine (e il fine) della vita: la morte, qui, sembra una esperienza molto più mischiata con la vita: forse perché si muore molto spesso in età ancora giovane, forse perché si muore senza poter capire il motivo né poter fare qualcosa per evitarla. Nella lingua di questa terra morire si dice "perdere la vita": come se appunto la vita fosse qualcosa che ti è dato all'inizio, come un dono, e ad ogni momento la puoi perdere, e la devi trattare con cura. Chi vive così dà molto più valore alle piccole cose di ogni giorno, non fa una tragedia se manca qualcosa, quando ha di che mangiare e la salute non gli dà grosse preoccupazioni si sente felice e ringrazia. Ma torniamo a Gesù e alle sue parole sulla fine. Sta parlando al gruppo ristretto dei discepoli, sul versante occidentale della collina detta degli ulivi. Guarda il tempio di Gerusalemme, di cui ha appena annunciato la fine, con i suoi segni premonitori che l'accompagnano. Cosa sarà la fine per Gesù (e per il discepolo che decide di guardare la vita con i suoi stessi occhi)? Sarà il ritorno del Figlio dell'uomo, di Gesù stesso (che dopo la sua resurrezione andrà al Padre) per incontrare i suoi eletti da ogni parte della terra: questa è l'unica cosa chiara che emerge nelle parole di Gesù in questa domenica. Il resto è oscuro, o meglio, serve per caratterizzare questo ritorno del Signore: è un fatto cosmico, tanto che sarà preceduto dallo sconvolgimento degli astri che all'inizio sono stati creati per segnare il ritmo dei giorni; è un fatto storico, che avverrà "in quei giorni", un'espressione tipica dei profeti per indicare un futuro certo ma indefinito; sarà un fatto trascendente, perché il potere e la gloria del figlio dell'uomo sono superiori ad ogni misura umana; infine sarà un evento universale, perché saranno riuniti davanti a lui tutti gli eletti della terra. Il fico insegna che la primavera è annunciata dai suoi segnali: così è per il ritorno del Signore. Agli uomini non è dato di conoscere il giorno (che compete solo al Padre), ma devono sapere che è un fatto certo, un incontro che attende la storia al suo culmine, al suo compimento. * Il testo di Daniele ci ricorda che per i giudei della generazione di Gesù la risurrezione era un presentarsi davanti al giudice finale per ricevere la ricompensa per la vita: per alcuni sarà una risurrezione di vita, per altri una risurrezione di morte. Il testo di Ebrei ci ricorda che Gesù con il sacrificio unico della sua vita sulla croce si è seduto per sempre alla destra di Dio e ci ha aperto la strada per essere perdonati e quindi partecipare della sua stessa vita: da questa vita rimane escluso solo chi rifiuta il dono della salvezza. Il salmo 15 riassume poeticamente questa visione della vita dicendo: nelle tue mani sta il mio destino, confido in Dio che non mi abbandonerà nel sepolcro ma mi chiamerà alla sua presenza. * Nella fede possiamo camminare verso la fine della nostra vita e del mondo sapendo che è il momento dell'incontro, della verità di ciò che ora non riusciamo a comprendere; come il compimento di ciò che le nostre forze non riescono a compiere ma il nostro cuore desidera. Commento a cura di padre Gianmarco Paris |