Omelia (26-11-2006)
mons. Vincenzo Paglia
Tu lo dici: io sono re

Con questa domenica si chiude l'anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa ci inviterà ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudiziario, amministrativo, e così via). Il tempo liturgico è altro da quello ordinario. È un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le scadenze, i ritmi e gli obiettivi. Nello scorrere dell'anno liturgico siamo guidati; ognuno di noi viene come sottratto alla normalità delle sue abitudini e delle sue preoccupazioni per essere inserito in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagine del Vangelo che scandiscono il "nostro" tempo. E ognuno è come trasportato dentro la storia stessa di Gesù, divenendo in certo modo suo contemporaneo. Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stargli accanto quando nasce, quando predica e guarisce, quando soffre e muore, e quando risorge e ascende al cielo e di lì manda lo Spirito Santo sulla Chiesa che viene inviata sino ai confini del mondo.
L'anno liturgico, insomma, è Cristo stesso ("annus est Christus", diceva l'antica saggezza cristiana) che ci viene donato. In questo singolare "anno" non si tratta di commemorare un assente, ricordando magari con affetto i momenti salienti della sua vita. È una realtà ben più profonda: la memoria liturgica rende presente in mezzo a noi il mistero che celebriamo. In tal modo, ogni domenica siamo condotti per mano dalla santa Liturgia accanto a Gesù, a seguirlo passo dopo passo in tutto il suo itinerario verso il Padre che sta nei cieli. E se gli "anni liturgici" continuano a ripetersi, è perché non termina mai la nostra condizione di discepoli, ossia di seguaci di Gesù. Abbiamo bisogno di riascoltare e di riprendere a seguire il Signore. La Parola di Dio che ci viene annunciata parla al nostro cuore e ci conduce vicino al Signore, unico pastore buono della nostra vita.
L'ultima domenica dell'anno liturgico celebra la festa di Cristo re dell'universo; ossia la festa della sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. È una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. È la festa di Cristo, re dell'universo. L'Apocalisse di Giovanni, parlando alle comunità cristiane perseguitate e oppresse dall'impero romano, mostra Gesù vittorioso nel cielo della storia: "Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto". Alcuni secoli prima anche il profeta Daniele aveva visto "apparire sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".
Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che davanti ai nostri occhi la liturgia, dopo le visioni di Daniele e dell'apostolo Giovanni, ci presenta un re umiliato, ridicolizzato, sconfitto. Verrebbe da chiedersi: ma che re è il nostro? Forse ci troviamo vicini allo scetticismo di Pilato. Al vederlo conciato com'era quel venerdì santo, incuriosito, glielo chiede: "Tu sei il re dei giudei?". L'aspetto arrendevole e modesto di Gesù era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata per rovesciare il dominio di Roma. Eppure, Gesù non nega l'affermazione del governatore, e risponde: "Tu lo dici, io sono re!". Ma subito, per evitare qualsiasi equivoco, aggiunge: "Il mio regno non è di questo mondo". E per convincerlo porta una prova elementare: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei". È tutto vero. Anche se viene da pensare che quei pochi amici che aveva, non solo non lo difesero, al contrario lo abbandonarono tutti dandosi alla fuga; solo uno tentò la difesa con un colpo di spada, attirandosi però una dura reprimenda da parte di Gesù. Non è in quel modo che si difende quel Maestro e il suo Vangelo. E Gesù restò solo. Ma che re è, uno che resta solo? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo, come dice lui stesso: "Il mio regno non è di questo mondo". In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: "Il mio regno non è di quaggiù". La sua regalità non trae origine dal mondo, non viene dal consenso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico), e neppure dalle sue qualità straordinarie (volevano farlo re quando moltiplicò i pani per cinquemila persone, e fuggì).
La regalità di Gesù viene dall'alto; nasce da Dio. Questo, tuttavia, non vuol dire che non si eserciti in questa terra e nel nostro mondo. E Pilato lo ha capito bene. In certo modo, lo aveva capito anche Erode quando i magi gli chiesero dov'era nato il re dei giudei. Per paura di perdere il potere Erode fece uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù. Quel bambino era re, ma in un modo diverso, ben più profondo e radicale, di quel che Erode e Pilato pensavano. Il governatore di Roma, ormai verso la fine dell'interrogatorio, conclude: "Dunque, tu sei re?". Sembra voler affermare che l'accusa è giusta. Gesù concorda con lui, e spiega che proprio per questo è venuto nel mondo: ossia per "rendere testimonianza alla verità". E subito aggiunge: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!". La verità è il Signore Dio che ha amato gli uomini al punto da inviare il suo figlio unigenito per liberarli dalla schiavitù del peccato e della morte. Gesù è il volto concreto di tale amore, il testimone della "passione" di Dio per gli uomini.
Strana regalità quella di Gesù! Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Il suo potere è la forza debole della misericordia, della compassione, della mitezza, dell'amore. Così Gesù governa i cuori degli uomini e la storia. Lo aveva detto all'inizio sul monte delle beatitudini: "Beati i miti, perché erediteranno la terra"(Mt 5, 5). La vera grandezza, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla "verità" di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Questo amore vince ogni male e oggi lo contempliamo vittorioso, alla fine della storia.