Omelia (31-12-2006)
Agenzia SIR


Poche sono le notizie che abbiamo dai Vangeli sull'infanzia e l'adolescienza di Gesù. Solo Luca ci riferisce l'episodio della sua presenza al tempio, all'età di dodici anni, con la disputa tra i dottori. La prima volta che Gesù si stacca dai genitori.

Gesù aveva raggiunto l'età in cui ogni ragazzo ebreo era tenuto a sottoporsi alla legge del suo popolo, Israele. Il che era sancito da una visita al tempio di Gerusalemme, con i genitori. Maria e Giuseppe assolsero a quel loro compito, a cui Gesù non si sottrasse. Abbiamo così una famiglia che si reca insieme a pregare, come famiglia: genitori e figlio. Vedo nella chiesa dove celebro la domenica, nelle prime file, un bel gruppo di bambini. Ma dove sono i loro genitori?

Alcuni sono accompagnati dai catechisti, altri vengono da soli. Nella maggior parte dei casi la famiglia, in quanto tale, è assente. Forse è questa, non ultima, una causa della poca stabilità della famiglia e della sua scarsa incidenza educativa. Manca a questi figli la convinta testimonianza religiosa dei loro genitori. L'esempio di Maria e Giuseppe dovrebbe insegnare qualcosa: che i genitori sono chiamati, loro per primi, a essere educatori nella fede, non tanto con le parole, quanto con i fatti, a cominciare dall'atto più importate: la partecipazione, insieme, alla mensa domenicale della Parola e dell'Eucaristia.

Dopo averlo smarrito e cercato per tre giorni, Maria e Giuseppe ritrovarono Gesù nel tempio, in mezzo ai dottori "mentre li ascoltava e li interrogava". Qualcuno potrebbe dire: il Figlio di Dio che va al catechismo. Certamente è un atto di umiltà, ma anche un modo molto concreto per ricordare poi ai genitori, addolorati e smarriti: "Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?". Sì, lo sapevano, ma forse non pensavano che dovesse cominciare così presto. Peraltro, Gesù resterà ancora un bel numero di anni nella bottega di Giuseppe, prima di iniziare a tempo pieno la sua vita pubblica, la missione nel mondo.

Ma anche ogni figlio che viene al mondo, benché occupato nella scuola e nel lavoro, nelle attività di questo mondo, non dobbiamo mai dimenticare che deve anche occuparsi delle cose che riguardano il Padre del cielo. Dovrà infatti conoscere, adeguatamente, i contenuti della fede e gli impegni derivanti dal suo battesimo. Nessuno potrà imporgli delle regole, ma i suoi educatori sono chiamati a dargli quelle conoscenze, che sono sufficienti a scegliere con libertà e responsabilità. È quella necessaria e oggi insufficiente "trasmissione della fede", di cui si è parlato tanto anche a Verona. Un problema aperto per le famiglie cristiane e per la Chiesa di oggi.

Quando i genitori, dopo lunga ricerca, ritrovano il figlio, è la madre Maria a rimproveralo dicendo:"Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo". Giuseppe non era il vero padre, eppure Maria lo mette per primo, con un atto di esemplare e squisita sensibilità sponsale. Quante volte, purtroppo, sentiamo dei genitori che, davanti ai figli, si squalificano a vicenda? Quante altre volte il marito scarica le colpe sulla moglie o viceversa?

Tutto ciò non costruisce certo nei figli una profonda stima per i genitori. Stima di cui, peraltro, ci sarebbe molto bisogno. E questo vale altresì per tutti membri della famiglia, figli e genitori, nonni e nipoti. Tanto più questo vale per una famiglia cristiana, alla cui base, come nella famiglia di Nazareth dovrebbe sempre esserci la legge dell'amore. Un amore che, oltre ad alimentarsi della reciproca stima, dovrebbe trovare il suo sostegno nella preghiera. Si diceva una volta: "La famiglia che prega unita, vive unita". Penso che ciò valga anche per i nostri giorni. Anzi, molto di più.

Commento a cura di don Carlo Caviglione