Omelia (08-04-2001)
padre Tino Treccani
Davvero quest'uomo era giusto!

La narrazione della passione di Gesù, ormai giunto a Gerusalemme, è molto densa per racchiuderla in poche frasi; come del resto tutta la liturgia della Settimana Santa. Se i fatti anteriori, narrati da Luca, ci spronano a calare il Vangelo nella nostra vita quotidiana, ancor di più le narrazioni dell'epilogo terrestre di Gesù: un uomo che serve, che dona la vita senza appellarsi alla violenza, che muore violentemente tra malfattori, dopo essere preso come un brigante; e... l'abbandono ed il tradimento da parte dei suoi intimi.
É facile lasciarci prendere da un'animata pietà ed anche vedere lacrime scorrere sui nostri volti. Ma non stiamo facendo un semplice ricordo, bensì l'anamnesi di un evento successo nel passato che si rinnova anche oggi.
L'evangelista ci presenta diversi scenari e personaggi che rilevano le attitudini di ogni persona che si imbatte con Gesù.
Gesù desidera mangiare la Pasqua con ognuno di noi, consumare non tanto un destino, bensì presentarci le estreme conseguenze dell'Amore. Ognuno di noi mette la mano nel piatto e giura come Pietro, fedeltà assoluta. Come Giuda, sappiamo commerciare la verità di Vita per pochi soldi, perché non riusciamo a capire un Amore di questo tipo. Discutiamo chi di noi è il migliore, il più fedele, ortodosso; sappiamo pure ricorrere alla spada per difendere Gesù, per sottolineare la nostra cocciuta incomprensione del suo Regno. Ai cavalli sfarzosi e potenti preferisce un giumento. Lo seguiamo al Monte degli Ulivi ed il torpore dei nostri sonni ciechi vince la preghiera. Sembra che la tentazione miracolistica non ci abbandoni mai. Può essere il sonno della tristezza od il bacio di Giuda. Entrano in scena le autorità, i Pilato e gli Erode di tutti i tempi, emissari di un potere di morte. Pur davanti all'evidenza dei fatti, cioè alla giustizia di Gesù, fingono di essere comprensivi e premiatori delle richieste del popolo. Un popolo banderuola a cui interessa riempire la pancia; un popolo oppiato che accetta la dominazione come volontà di Dio. Anche quando un Simone Cireneo ci aiuta a caricare la croce, continuiamo a batterci il petto come le donne che seguono il triste corteo della morte. L'essenziale non è la coreografia della vita, ma il senso per cui e con cui la viviamo. Chi annoveriamo tra i malfattori oggi? Chi tra di noi, osa ripetere le parole del centurione: veramente quest'uomo è un giusto? Che tipo di giustizia abita nelle nostre case, chiese e comunità cristiane?
Come Giuseppe di Arimatea, aspettiamo il Regno di Dio; ma spesso ci limitiamo a seppellire i morti. Viviamo una cultura di morte, e di conseguenti onori postumi. Necromania e profitto, sbandierati come gli elisir dell'eterno successo. Eppure Gesù ci ricorda che "oggi possiamo essere con lui in paradiso"; le donne andranno al sepolcro, dopo il riposo del sabato e sconvolgeranno tutti col loro annuncio: Gesù è vivo! Beh, sotto sotto, spesso ci diciamo: "questa barzelletta lasciamola per altre ore". A parole non rinnegheremo mai l'evento che ha sconvolto la storia umana: passione, morte e resurrezione di Gesù; coi fatti, non sempre noi cristiani, traduciamo questa certezza. Dov'è l'annuncio di gioia? Tra le rigidezza delle strutture che ormai segnano la morte di un Tempio incentrato su se stesso? Tra i bagliori effimeri di qualche secolo? O forse nella tenace e paziente testimonianza di quanti, con la propria vita, continuano a cantare la Vita? Gesù, proprio perché ha raggiunto la coscienza di Figlio, non si sottrae al naturale "passaggio" cui tutti dobbiamo fare referenza; ma senza fatalismi o nostalgie mitologiche, lo supera nel concepire il servizio, il dono, infine... l'Amore come le uniche vie dell'eternità. Un'eternità che inizia adesso, nella misura che smettiamo di comandare agli altri, che impariamo dall'unica Vita, i secondi e gli anni preziosi intesi come dono, come proposta e accoglienza di ogni essere vivente.
La morte di Gesù non può restare rinchiusa dal sepolcro sterile della rassegnazione; meno ancora nella presunzione di essere noi a reggere le redini della storia o, peggio, della vita delle persone. É una morte che deve liberarci da tutti i suoi tentacoli. Aprire il cuore all'alba nuova che squarcia ogni tenebra ed ogni tempio prefabbricato; una gioia di vivere che si fa contagiosa, una coscienza che ci dia il coraggio di mettere il cuore nelle piaghe degli altri, per tirare lo sputo dai loro volti e le travi dai nostri occhi. Passione non è masochismo o sadismo, tanto meno falsa commiserazione della disgrazia altrui; è credere che questo Cristo, oggi continua ad essere ucciso dal sopruso, quando potrebbe cavalcare nuovamente un giumentino in mezzo agli "hosanna" dei giusti. Lo stesso Cristo continua ad essere inchiodato sulle croci della disuguaglianza, dell'ingiustizia delle nostre relazioni umane. Queste richiedono grazia, perché carne della Sua carne, sangue del Suo sangue. Mangeremo la Pasqua tra qualche giorno: sarebbe molto triste pensarla e viverla solo in funzione di noi stessi. Sarebbe come schernire ancora una volta il Crocifisso, invitandolo a scendere dalla croce per fargli risolvere tutti i problemi che affliggono l'umanità. Se, come il centurione, diciamo che "veramente Lui è un uomo giusto", allora rimbocchiamoci le maniche per non mettere più nessuno in croce ed impedire che i reucci fantocci e sanguinari, continuino col macabro carnevale della morte sul nostro pianeta.