Omelia (12-04-2001) |
padre Tino Treccani |
Il centro dell'amore é il servizio La liturgia della Parola che ci è offerta nella messa del Giovedì santo è ricchissima: Pasqua, servizio, condivisione segnano l'Amore di Gesù che si fa Eucaristia. Amare fino alla fine, all'estremo, anche coloro che ci possono tradire o rinnegare, ecco l'ampiezza e la portata del gesto eucaristico di Gesù. Gesù non è sacerdote, né appartiene alla casta sacerdotale del tempio di Gerusalemme. Giovanni nemmeno accenna alla Pasqua giudaica. Il testo ci suggerisce, sulla scia della prima lettura, che la Pasqua deve essere un evento di vita nuova, dove tutte le barriere che separano ("diabolizzano") le persone, sono spezzate. Il Signore, si fa Servo e fa capire bene che è l'unica maniera di realizzare il progetto divino e "sa" che questo si compirà definitivamente sulla croce. Si spoglia del mantello per vestirsi di un grembiule, di un asciugamani. Con questo lava i piedi dei suoi discepoli e poi ritorna a sedersi, sempre come il Maestro, il Signore, ma senza abbandonare la scelta di Servo. Il grembiule gli sarà tolto sulla croce. Pietro continua con la mentalità dell'epoca, non capisce; ragiona come un suddito con la testa di "padrone". Gesù gli dice che "non sa niente"; per questo deve convertirsi. Pietro pensa che la disuguaglianza sia legittima e perfino necessaria per l'ordine della comunità. E Gesù è radicale: se non è così, non puoi partecipare al progetto di Dio. Pietro è di testa dura e intende il "Lava-piedi" come un rito di purificazione: lavarsi per eliminare l'impurità rituale. Cosa, del resto, ben chiara per i giudei e ciò comportava solo lavare le mani. Ma Gesù mostra che, anche purificandosi ritualmente, qualcuno può continuare impuro. É il caso di Giuda Iscariota: lavando i piedi, la sua impurità rimane, perché ha aderito al diavolo, lo spirito antifraterno che porta alla lussuria e non alla condivisione ed al servizio. La scena è molto simbolica: lavati i piedi ai discepoli, Gesù si siede a tavola, ossia, nella posizione dell'uomo libero (gli schiavi non sedevano a tavola), ma conserva la posizione del servo (non toglie il grembiule, l' "attrezzo" dei servi; lavare i piedi era compito degli schiavi non giudei o delle donne giudaiche, figlie, sposa). Così Gesù continua sempre come colui che serve e sarà spogliato del "lenzuolo-tovaglia-panno" sulla croce, perché lì si compie il suo servizio. C'è differenza tra Gesù ed i discepoli, senz'altro; tuttavia, chiamarlo Maestro, significa imparare da lui; chiamarlo Signore deve portarci ad identificarci con lui nell'amore disinteressato, messo a servizio di tutti, inclusi coloro che saranno capaci di tradimenti che portano alla morte. Per riflettere La coscienza di Gesù del momento che sta vivendo è collegata all' "ora" che culmina con la morte in croce. Gesù non si lascia trascinare dalle circostanze, ma dall'amore che si manifesta in forma perfetta: "li amò sino alla fine". L'Ultima Cena è ricordata come il momento in cui Gesù istituisce l'Eucaristia e l'Ordine, secondo la tradizione cristiana. Ma il "sacerdozio" di Gesù non inventa un nuovo rito e nemmeno suggella uno status sociale. Il suo sacerdozio consiste proprio nel farsi umile, servo, ultimo. In questo senso offre "se stesso" come cibo di vita eterna. Non è un semplice ricordo della Pasqua ebraica, messa per iscritto in epoca di esilio e richiamando le "gesta" di Dio nella terra d'Egitto. É bensì inaugurare un vita nuova, un modo nuovo di vivere tra le persone. E S. Paolo lo denuncia chiaramente nella seconda lettura: a Corinto, i cristiani potevano celebrare l'Eucaristia senza condividere i beni con coloro che non hanno niente? Il momento della condivisione, tipico nel relato paolino sulla Cena del Signore, precedeva il grande segno che "attualizzava" (memoriale) la condivisione di vita del Signore. Noi cristiani dobbiamo rivedere l'atteggiamento di fondo con cui ci accostiamo all'Eucaristia. Quante volte la riduciamo a "fatto privato" (= tra me e Dio), dimenticando la portata universale, cioè che è alimento dato "per tutti", per il perdono dei peccati, non solo dei miei. In altre parole, se mi manca la generosità di servire, la coscienza della mia "ora" intesa come donazione senza riserve e divisioni, cioè se la vivo senza fraternità concreta e reale, comunico alla mia propria condanna. É vero che siamo limitati, peccatori incalliti ed è altrettanto vero che le nostre comunità cristiane spesso celebrano l'eucaristia senza alcuna incidenza sulla vita pratica. Corriamo spesso il pericolo di ritualizzare, dimenticando la parte più importante, il memoriale; attualizzare questa condivisione di Vita che il Signore ci dà. Ecco allora che le nostre messe, le nostre ore eucaristiche vengono testate inevitabilmente dai "frutti" del nostro vivere l'eucaristia. I fatti ci dicono da sé stessi, se siamo veramente innamorati del Cristo Eucaristico, o se, per troppo amor proprio e individualista, continuiamo a fare buchi nell'acqua, magari eseguendo a puntino ogni rito. Celebrare l'eucaristia e non vivere la fraternità, la comunione nella mia comunità religiosa, è peccato, profanazione, leggerezza; è mascherarmi dietro pure e vere menzogne. Voler convincere un non credente che il mio essere cristiano sia il cammino migliore, deve essere portato avanti con la persuasione della proposta coerente con ciò che celebro e vivo. Altrimenti è un fracasso, una presunzione (spesso incosciente) di sentirmi un gradino più in alto. L'eucaristia non è uno scherzo, tanto meno una moda. Penso che, pur dopo tanti secoli, abbiamo ancora una grande chance: quella di riconoscerci veramente fratelli, proprio a causa dei nostri peccati, e quindi darci la mano e insieme condividere, tutti, la proposta di Gesù. Nella fraternità c'è spazio per la correzione fraterna, per il sostegno e la condivisione e soprattutto per il perdono. Nella presunzione di titoli o ruoli, spesso si annida la nostra stessa sconfitta: servi inutili, che servono proprio a nessuno, ancor meno per la propria salvezza personale. Rimango incantato quando, dopo celebrazioni eucaristiche in piccoli gruppi o comunità, si prende del tempo per condividere un po' di cibo che ognuno porta, segno per attualizzare l'impegno a condividere la nostra vita, il nostro essere e non solo i nostri averi, qualità e specializzazioni. Mi brillano gli occhi di gioia quando assisto a riconciliazioni umili, ma profondissime e piene di dignità, realizzate dalle persone prima di comunicarsi. Vedo le persone che si aiutano, con tante "piccolissime cose", ma segni lampanti che hanno capito la lezione del Maestro: farci cibo gli uni per gli altri. E per questo non c'è bisogno di tante stole o piviali. C'è bisogno sì, di coerenza, di revisione dei miei rapporti col fratello che mi è antipatico, che mi giudica, che mi condanna addirittura, che non mi tollera. C'è bisogno di coraggio per dirmi che alla fine uno deve pure iniziare, senza aspettare che altri smuovano i primi sassolini. C'è bisogno di grazia, che è riconoscere questa terra per tutti, riconoscere che ogni cuore è grande e immenso, santo. C'è bisogno di fede per credere che la competizione non fa parte del vocabolario cristiano, bensì la collaborazione, il dialogo, il rispetto dell'unicità di ognuno di noi nella pluralità dei figli di Dio. Abbiamo bisogno di tradurre i nostri riti, di attualizzarli, di eliminare la divisione tra spirituale e materiale e credere alla più grande rivoluzione apparsa su questa terra: un Dio che si fa servo, peccato, per amore a noi, per insegnarci il cammino della felicità. Se così è il nostro Maestro e Signore, noi, suoi discepoli, cosa aspettiamo a seguire le sue orme? Ci fanno paura le croci forse? Anche Lui ebbe paura. Ci sentiamo troppo piccoli? E chi era Lui di fronte a tutto l'apparato del Tempio e dei Romani? Eppure Lui continua ancor oggi, vivo nel cuore di tantissime persone, che nemmeno lo hanno visto di persona, ma hanno creduto alla sua proposta. Lavarci i piedi, con amore, un gesto tanto semplice, ma forse, ancora non chiaro nelle nostre menti e cuori. |