Omelia (14-01-2007) |
Agenzia SIR |
Commento su Giovanni 2,1-11 Dovendo trovare un'immagine che aiuti a capire che cosa sia il cristianesimo, quella più eloquente è sicuramente l'immagine delle nozze. Nel quadro europeo, d in particolar modo quello italiano, la scelta delle nozze è sempre più una scelta e sempre meno abitudine o consuetudine. Nel Vangelo di questa seconda domenica del tempo ordinario il messaggio che ne esce è dal sapore di incontro, dono, scambio, stupore. Prepararsi alle nozze è una festa (oggi forse più una preoccupazione ed elenco di cose da fare) perché è l'inizio di un cammino nuovo. Gesù viene invitato alle nozze, sottolinea l'evangelista Giovanni, un invito che farà la differenza in corso d'opera e da invitato si trasformerà in autore della festa. Nelle vicende di tutti i giorni si crede che il miracolo sia paragonabile a qualcosa di straordinario, improvviso. Forse una prima chiave di lettura è lo stesso brano di Vangelo di questa domenica ad offrirlo: il miracolo si fa quotidiano quando si passa dal fare di Gesù un invitato, a una presenza permanente nella propria vita. L'invitato arriva, sta e riparte. Con il Signore le cose sono diverse: egli viene, sta e rimane, anche quando ci sembra di essere rimasti soli. Iniziamo, pertanto, con lo spogliare il cristianesimo di tutte quelle false immagini di cui viene caricato e che spesso, forse, ha visto anche noi tra i protagonisti; immagini distorte, di un Dio separato dalla nostra vita, che non interviene quando è necessario e arriva di sorpresa quando non è stato invocato. Una delle bellezze del cristianesimo risiede proprio nella libertà che Dio si prende e dà, che non risponde (per fortuna!) ai nostri comandi, richieste e pretese. Dio Padre sa di che cosa i suoi figli hanno bisogno. Il punto è se i figli sanno di che cosa hanno realmente fame e sete. Hanno bisogno, innanzitutto, di vivere il rapporto con Dio nello stile delle nozze, di un legame che va consolidato giorno dopo giorno come tra due sposi. Le nozze cristiane dicono che l'amore è posto al di fuori degli sposi, è un amore decentrato che trova il suo fulcro in Dio. L'amore che ci si dona è il frutto di quel paziente tessere che Dio intreccia tra i due sposi. Riportiamo Dio nelle viscere della nostra vita, non lasciamolo fuori della chiesa mentre lo invochiamo proprio all'interno di essa. Il vino buono di cui parla il Vangelo dell'odierna domenica è ancora da bere, da gustare. Si farà sempre più buono tanto quanto viene attinto, preso, versato. La sua bontà, forse è più corretto dire la sua verità, risiede proprio nel momento in cui entra dentro l'uomo. L'inizio dei miracoli di Gesù sono già una chiara indicazione di che cosa sia e voglia essere il suo ministero: farsi permanentemente vino di verità perché gli uomini possano sempre attingerne. La vita delle comunità parrocchiali è proprio questo attingere costantemente al "vino buono", a Cristo. Sono sei le giare, una per ogni giorno dal lunedì al sabato. La domenica è il giorno del versare vino buono che, non a caso, prende vita dall'acqua della ferialità. Ecco, pertanto, un ulteriore chiaro messaggio che l'evangelista Giovanni offre alla riflessione: la vita di tutti i giorni e con essa le cose che si vivono (lavoro, scuola, famiglia, fatica, impegni, gioie) sono la necessaria acqua che prende origine da noi a essere poi tramutata in vino, in stupore, in bellezza. Dio compie il miracolo non per l'uomo, ma con e dentro di lui. I discepoli di Gesù credettero dopo aver visto quello che Gesù aveva compiuto. In questo non imitiamoli, ma sentiamo riecheggiare ogni giorno in noi le parole di Maria: "Fate quello che vi dirà". Dalla fiducia sgorgherà sempre vino vero. Commento a cura di don Giacomo Ruggeri |