Omelia (02-02-2003) |
mons. Antonio Riboldi |
E’ancora accesa la nostra candela? Era una festa, che si presentava con una certa solennità, quella della Presentazione di Gesù al tempio e della purificazione di Maria. Veniva chiamata, ed è ancora chiamata, "la candelora", incentrando tutto il significato della liturgia sulla benedizione e consegna delle candele, che poi venivano portate a casa e usate nei modi più svariati. C'è chi la metteva, come faceva mia mamma, in testa al letto, come a ricordarci che, senza la luce di quella candela, si camminava nel buio. Una autentica esortazione a vivere la fede, che abbiamo professato il giorno del nostro Battesimo, quando siamo stati "presentati in qualche modo, al nostro vero Padre" e quindi impegnati sempre a vivere da figli, con gioia e gratitudine. In altri casi quella candela veniva accesa quando qualcuno era sofferente e in procinto di tornare a Casa, come a presentarsi a Dio con la fede viva, la vera luce, che accompagna la vita del cristiano nella vita. E vi è chi forse la usa per allontanare pericoli nelle campagne o altro. Quale la sua verità? Racconta il Vangelo di Luca: venne per la madre e per il bambino il momento della loro purificazione come è stabilito nella legge di Mosè. I genitori allora portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Sta infatti, scritto nella legge del Signore: "Ogni maschio primogenito appartiene al Signore". Essi offrirono anche il sacrificio stabilito dalla legge del Signore: un paio di tortore o due giovani giovenchi" (Lc 2,23-25). C'è, in queste poche righe, una grande lezione di fede: ossia, ogni creatura, che è su questa terra, è sempre un dono del Signore e quindi una "sua proprietà o dono". Presentare al tempio il primogenito era riconoscere che Dio è il Creatore, il Padre da cui tutto proviene: e non c'era modo più efficace e stupendo, per riconoscere questo essere del Padre, che ridonarGli il dono ricevuto. Non solo, ma presentare il figlio primogenito al Padre aveva il grande significato di offrirsi al disegno che Lui aveva su di noi: ossia essere pronti a fare la sua volontà, che è poi il perché del dono della nostra esistenza. Così Gesù, Figlio di Dio, appena nato, non solo pubblicamente, tramite Maria e Giuseppe, riconosce che è del Padre, ma si offre, pronto alla missione che Gli era stata affidata e doveva compiere: la incredibile missione di realizzare la nostra salvezza. E' grande lo stupore davanti a questa immediata consegna, che Gesù fa di Sé al Padre: come a dire, tutta la mia vita ti appartiene. Eccomi! E' un poco quanto avviene, anche se sotto altro aspetto, nel nostro Battesimo. I nostri genitori ci hanno presentati al Padre, perché, attraverso le acque del fonte battesimale, purificati dal peccato che ci separava da Lui, fossimo, da quel momento, figli del Padre, nostro Creatore. E' una grande grazia non solo riconoscere che siamo "creature di Dio", ma offrire la nostra vita al suo servizio, per la missione che Lui vorrà affidarci. Sembra, quello che scrivo, una riflessione che, purtroppo, tanti definiscono assurda, in quanto l'uomo spesso non crede più di avere un Padre e neppure un creatore. Di fronte a questo "credo", più che una bestemmia, davvero siamo di fronte ad un atto di arroganza, che ci getta nel buio del vivere senza vera paternità divina. Che l'uomo si erga a nostro creatore è davvero svuotare la vita di verità e dignità. Un giorno, un ragazzo delle scuole medie, mi descriveva la nostra origine: nati dal bigbang cosmico, passando attraverso una evoluzione totale, senza intervento di UNO CHE DESSE vita, ordine e senso a ogni creatura, come solo la potenza e l'amore del Padre potevano dare, si arrivò alla scimmia e dalla scimmia noi siamo nati. Figli della scimmia. "Sei contento, gli chiesi, essere disceso da una scimmia?". Il ragazzo storse il naso e mi disse: "Mi fa schifo pensarlo". Ma una scienza, che non vuole abbassarsi all'umiltà di riconoscere che tutto il creato è opera di Dio e soprattutto l'uomo, oggi si erge a creatore. Siamo davvero in cattive mani. Sono felice di essere uscito dalle mani di Dio. Mi pare di vedere in me stesso le impronte di quelle mani nelle tante bellezze dell'animo, dalla libertà, alla voglia di sapere, al desiderio di infinito, alla sete di amore e santità. E mi sembra di sentire il profumo di quelle mani nel sapore dell'amore. C'è una bella preghiera, che amo recitare tutti i giorni, per sentirmi tutto di Dio. "Accogli Signore tutta la mia libertà. Prendi la mia memoria, il mio intelletto e ogni mio volere. Tutto ciò che mi è stato da te donato te lo restituisco. Ti chiedo soltanto che tu mi doni amore e grazia e per me questo basta". Nella presentazione di Gesù al tempio, leggiamo anche la sua manifestazione a due meravigliosi anziani, che avevano impostato la loro vita proprio nell'attesa del Messia. Uno è il vecchio Simeone, che lo Spirito Santo avverte: misteriosamente, che il Messia è lì nel tempio. Lui lo riconosce nelle braccia di Maria e, nel pieno della felicità, canta la sua gioia così: "Oramai, Signore, puoi lasciare che il tuo servo vada in pace"; la tua promessa è stata compiuta. Con i miei occhi ho visto il Salvatore. Tu l'hai messo davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele". E deve essere stato davvero uno spettacolo di paradiso vedere il bambino Gesù nelle braccia del vecchio Simeone. L'aveva atteso tutta una vita ed ora Lo aveva tra le braccia. Una scena di amore, lode a Dio, che vale davvero l'attesa intensa di una vita. Chiama quel Bambino, ossia Gesù, "luce per illuminare le nazioni". Da qui la benedizione delle candele. Stanno a dirci la professione della nostra fede, la gioia dell'avere anche noi, tra le nostre braccia, se lo vogliamo, il Bene più grande si possa pensare, Gesù. Possiamo facilmente immaginare la luce negli occhi di Simeone, occhi pieni di lacrime di gioia, di Paradiso, lacrime che vorremmo fossero pieni i nostri occhi. Lacrime che, a volte, conosciamo, quando scopriamo chi davvero ci vuole bene. Lacrime che sono negli occhi dei santi ogni volta che contemplano Dio, come fossero nelle sue braccia. Lacrime che la dicono lunga cosa sia la vera gioia del cuore. Ma, per conoscerle, bisogna credere che Gesù è la luce, rappresentata dalla candela che dovremmo avere sempre accesa: la candela della fede, come quella che il vecchio Simeone custodì per una intera vita, in attesa del Messia. Ma sono ancora accese le nostre candele? O addirittura sono sparite materialmente, come non servisse neppure più conoscere l'incontro quotidiano con la gioia dell'Amore di Dio? La tristezza nel mondo, il buio del nostro tempo, credo dipendano proprio dalle troppe candele spente! Bisogna urgentemente riaccenderle, cominciando da ciascuno di noi, per fare luce anche agli altri. C'è un vecchio proverbio saggio che dice: "Anche una sola candela accesa può accenderne mille spente. Ma mille spente non accenderanno alcuna candela". Leggendo poi il racconto della profetessa Anna, che dalla morte del marito si era data al servizio, notte e giorno del tempio, una vita tutta per Dio, si coglie a piene mani la gioia di questa donna e di tanti di tutti i tempi, Aveva 84 anni: 60 trascorsi al servizio del tempio. "In quello stesso momento racconta il Vangelo, arrivò anche lei e si mise a ringraziare il Signore parlando del bambino a tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme". C'è anche nei piccoli racconti del Vangelo e riguardano sempre Gesù, qualcosa di apparentemente semplice, ma che davvero, per chi sa abbandonarsi al silenzio della contemplazione, sembra spalanchino i cieli e mostrino la gloria del Dio vivente: quella gloria che, con la presenza di Dio tra di noi, può essere gustata anche da noi. Non c'è che da mettersi all'ascolto della Parola ed entreremo in questa dimensione del Regno di Dio, che è la nostra possibile Casa... sempre che sappiamo cercarla e scrutarla... con la candela accesa. |