Omelia (11-03-2007) |
Paolo Curtaz |
Dio e il dolore Questo è il tempo dell'essenzialità: quaranta giorni all'anno per seguire Gesù e imitare il suo bisogno di silenzio e preghiera, di verità e di scelta. Le tentazioni che colpiscono lui e noi ci impediscono di leggere nelle pieghe della nostra storia l'intervento di Dio. Per quaranta giorni vogliamo guardarci dentro alla luce della Parola per scoprire se siamo contenti di ciò che siamo diventati e se la nostra fede in Dio è la stessa di Gesù. L'obiettivo di questo percorso di vivificazione è il Tabor, la bellezza di Dio che ci fa dire ancora una volta, insieme a Pietro: «Maestro, è bello per noi restare qui». In questi anni di annuncio del vangelo mi sono accorto di quante visioni distorte o parziali di Dio io incontri. La quaresima è un tempo opportuno alla conversione, un tempo favorevole per abbandonare la brutta idea di Dio che abbiamo ed abbracciare, infine, il volto del Dio di Gesù. Dio crudele «Cosa ho fatto di male per meritarmi questo!», «Che croce mi ha mandato Dio!»: quante volte ho sentito pronunciare queste lamentazioni, queste imprecazioni verso Dio. Il dolore è un tema delicato e faticoso e tutti entriamo in crisi quando il dolore ci colpisce. Vorremmo delle risposte (ma è di risposte che abbiamo bisogno? No! Noi vogliamo non soffrire...) ma Dio tace e la Bibbia non ci aiuta molto. La pagina di oggi è straordinaria e ci indica un percorso di riflessione. Gesù, citando due noti eventi di cronaca dei suoi tempi, smonta una credenza popolare molto diffusa allora (e oggi). Un devoto medio pensava che le disgrazie, come appunto il crollo della torre di Siloe, punissero delle persone che - in qualche modo - avessero commesso degli orribili peccati. Così come la malattia, o l'handicap, la disgrazia era letta come un intervento corrucciato di Dio che, dall'altro della sua somma giustizia, scatenava la sua ira divina. E se un bambino nasceva malato? Orribile ma coerente risposta: i colpevoli erano i suoi genitori. Nessuna pietà, quindi, per i malati, né comprensione per le vittime della repressione romana: se erano stati uccisi era a causa dei loro peccati. Oggi non siamo più così crudeli e diretti, ma la sostanza non cambia. Molte persone, nei momenti di dolore e di sofferenza, se la prendono con Dio che, evidentemente, non sa fare il suo mestiere. Invece Ciò che Gesù dice è sorprendente, sconcertante: la vita ha una sua logica, una sua libertà. La causa del crollo della torre di Siloe è da imputarsi al calcolo delle strutture errato, o al lucro compiuto dall'impresa che ha usato materiali scadenti; l'intervento crudele dei romani è causa della loro politica di espansione che usa la violenza come strumento di oppressione. Non esiste un intervento diretto e puntuale di Dio, le cose possiedono una loro autonomia e noi possiamo conoscerne le leggi. Gesù ristabilisce le responsabilità: gran parte del dolore che viviamo ce lo siamo creato. La croce ce la danno gli altri o ce la diamo noi stessi con uno sguardo contorto e mondano della realtà. Ho scoperto, dopo molti anni, che molti passano la vita a piallare e carteggiare la propria croce, attribuendone a Dio la responsabilità. La scorsa settimana facendo una sciata in una delle mie parrocchie, uno skilifista sornione mi diceva: «Don Paolo, devi pregare Dio perché mandi la neve!»; e io, di rimando: «Dobbiamo pregare Bush perché firmi l'accordo di Kyoto!». Dio fa quel che può; anche lui si ferma di fronte alla nostra ostinazione e durezza di cuore. Dio è limitato, quindi? No, ma ferma la sua mano e ci lascia liberi, perché vuole dei figli, non dei sudditi. E, conclude Gesù, noi discepoli siamo chiamati a leggere questi eventi disastrosi come un monito che la vita, non Dio, ci fa: sotto la torre crollata potremmo esserci noi. Il tempo è serenamente fugace, amici, tragicamente breve, approfittiamo di questi giorni come giorni di salvezza e di conversione, non aspettiamo, non temporeggiamo. Oggi il Signore passa e ci salva, oggi siamo chiamati a usare bene la nostra libertà ed andare a vedere il grande prodigio del roveto ardente, di un Dio che conosce il nostro nome e la nostra condizione. Di più A Mosé che tentenna nell'andare a parlare di Dio al popolo, Jawhé racconta di sé, dice il suo nome, e si svela come un Dio che conosce le sofferenze del popolo. Se anche la nostra vita attraversa momenti di fatica, Dio non è lontano ed interviene, chiedendo a qualcuno di agire in nome suo. Dio non guarda indifferente alle tragedie del mondo, ma chiede a noi, come a Mosé, di renderlo presente accanto a chi soffre. Al popolo che aspetta liberazione Dio manda un pastore pauroso, Mosé, come liberatore. Quando chiediamo a Dio di liberaci dal dolore, il Signore ci invita a non coltivare il dolore, a sradicarne le radici e a diventare noi il volto solidale e sorridente di Dio per il popolo. I cristiani, ingenui, continuano, bene o male, a farsi prossimi là dove c'è dolore e ingiustizia. Siamo noi il sorriso di Dio, il balsamo che Dio dona all'umanità per superare ogni dolore e crescere in una più vera umanità basata sulla giustizia e sul perdono. Di questo siamo testimoni. La vita è un'opportunità da cogliere per scoprire chi è Dio e chi siamo noi e il deserto è il luogo in cui esercitiamo la nostra libertà. Non esiste una vita più o meno semplice, ma ogni vita è un soffio breve che siamo chiamati a vivere con intensità e gioia. Gesù ci svela il volto di un Dio che pazienta, che insiste perché il fico produca frutti. La conversione, il cambiare atteggiamento, il ri-orientare la nostra vita è il frutto che ci è chiesto. Fermiamoci davanti agli eventi tristi della vita senza incolpare Dio, né scuotere la testa e tirare innanzi, ma guardiamoli come un monito che la vita stessa ci rivolge per giocare bene la nostra partita. Dio - da parte sua - è un Dio che conosce, che interviene, ma che rispetta, trattandoci da adulti, le nostre scelte, anche se catastrofiche e schiavizzanti. |