Omelia (05-04-2007) |
padre Gian Franco Scarpitta |
In quella stanza al piano superiore... Volti plumbei e rattristati attorno a quella tavola imbandita nella sala appositamente addobbata a Gerusalemme. Quella che sarebbe dovuta essere una serata di gioia e di fraterna condivisione di un pasto sontuoso, a motivo della Pasqua ebraica che ricordava il lieto evento della liberazione del popolo dall'Egitto, è infatti per gli apostoli una circostanza triste e deprimente in cui dominano, apprensione, rabbia e paura in ciascuno dei commensali. Essere consapevoli che un nostro caro amico sta per essere barbaramente ucciso, è infatti già di per sé motivo di sconforto; ma se poi si viene a scoprire che la sua morte è dovuta al tradimento di qualcuno che noi si riteneva sempre essere stato una persona integerrima e insospettabile, questo non può che suscitare sdegno, recriminazione e asperità. Ecco perché parlavamo di rabbia. Chissà quante saranno state le rimostranze nei confronti di Giuda Iscariota da parte degli apostoli, una volta che questi veniva smascherato. Ma se gli apostoli mostrano stupore misto a biasimo e invettiva, da parte di Gesù si mantiene molta calma e serenità. O meglio, Gesù reagisce con spirito di rassegnazione e di accettazione; anzi, in un'altra circostanza si rivolge a Giuda intimandogli: "Quello che devi fare, affrettalo". Poiché Gesù non è affatto colto alla sprovvista né sorpreso dall'estemporaneità propria di chi viene ingannato: era ben consapevole che qualcuno doveva tradirlo per consegnarlo agli aguzzini, in quanto questo rientrava fra i disegni salvifici del Padre. Dio aveva determinato infatti la sua "ora", cioè il tempo propizio nel quale l'impero delle tenebre avrebbe imperversato per avere la meglio su di lui e Satana avrebbe inficiato il cuore di questo spregevole apostolo che fra l'laltro, una volta scoperto nelle sue intenzioni, non si ravvede né modifica i suoi propositi, ma realizzerà l'opera suggeritagli dal Maligno di consegnare il Signore alla morte. Gesù sapeva. Conosceva cioè le sottili astuzie del Nemico che si stava servendo di Giuda e, ben lungi, dall'impedirle o a darvi un cenno di contrarietà vi si sottoponeva perché ben conscio che la sua morte di croce era necessaria a che l'uomo si salvasse nella soddisfazione e nell'espiazione di tutti i suoi peccati. In quella sera, anziché provvedere a vendicarsi Gesù si premura di elargire ai suoi apostoli due eredità fondamentali che essi avranno cura di divulgare a tutto il mondo allora conosciuto e di cui anche noi siamo oggi resi destinatari: 1) in primo luogo la grande eredità dell'amore con cui egli intende raggiungere l'umanità; è infatti in forza dell'amore che il Padre ha riversato nei nostri cuori che Gesù si autoconsegna alle aberrazioni e alle miserie dell'uomo che feriscono molto più dei chiodi stessi della croce; è per amore che lo stesso Cristo non disdegna di perdere se stesso, la propria dignità e la propria autonomia e attendibilità di Dio e Signore per annientarsi e diventare oggetto di scherno; ed è sempre in vista dell'amore nei nostri confronti che accetterà di morire cruentamente pur essendogli l'autore della vita (At 2). L'amore di Dio spasima in Cristo affinché tutti e ciascuno di noi possano essere salvati perché tende a recuperare quanto di più nobile si era rivelato fra le creature del cosmo: l'uomo che nonostante tutto e a immagine e salvezza di Dio, e a tal fine il sangue effuso sul legno è sacrificale per la nostra causa come lo era quello degli olocausti e delle vittime animali dell'Antico Testamento, il cui sangue, sparso ora sul popolo, ora sul coperchio dell'Arca, ora sugli stipiti delle case, ha procurato più volte tanto la salvezza quanto l'espiazione dei peccati ma se tale è stato il suo amore per l'umanità tale dovrà essere l'amore degli uomini nelle loro interazioni continue: per restare nella dimensione instaurata da Cristo con Dio Padre e con noi occorre appropriarci dello stesso amore da viversi senza riserve ma nella spontaneità reciproca. L'amore deve avere la concretezza di quel gesto allusivo ed esplicito consumato da Gesù nonostante le obiezioni di Pietro: lavare i piedi agli apostoli. Tale atto commenta da se stesso la portata e l'importanza di quello che in fondo è l'unico comandamento del Signore che compendia tutta la Scrittura ed è la pienezza della legge e inoltre – San Paolo ai Romani – non ha mai fatto male a nessuno: il comandamento dell'amore franco, spontaneo, concreto e immediato per il quale nessuno può legittimare pigrizie o negligenze nel servizio del prossimo. Se Dio ci ha amati fino a tal punto, è lo stesso amore fra di noi che ci qualifica come posti alla sequela di Gesù, ma alle condizioni che sia amore concreto, realizzato nella sincerità, nel rispetrto e nella stimareciproca come pure nella disinvolta volontà di sacrificarci gli uni per gli altri anche in un solo atto di carità: l'amore per cui ci sia apre volentieri ai bisognosi, si consolano gli afflitti, si dona una parola di confornto agli sfidciati e ci si mostra attenti alle necessità degli altri. 2) Sempre in forza dell'amore per noi e fra di noi, Cristo non omette di garantire la sua continua presenza reale in diversi ambiti del vissuto umano ed ecclesiale ma se c'è un modo in cui in modo più mirabile e affascinante egli perpetua la sua presenza è quello di rendere presente nel tempo il medesimo sacrificio di donazione di sé sulla croce per presenziare nella realtà e nella sostanza in mezzo a noi. Tale è il Sacramento dell'Eucarestia, iniziato in quella fatidica serata al piano superiore della casa in Gerusalemme, le cui parole sono sempre rimaste intatte nella loro profondità ed importanza. "Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me." Termini questi tutt'altro che casuali, giacché evidenziano la volontà reale da parte di Gesù di voler restare con noi tutti i giorni e attraversare accanto a noi il tempo e la storia nelle sembianze di un alimento comune e di una bevanda ordinaria che ci ripropongono ogni domenica il suo sacrificio sulla croce. La presenza eucaristica di Gesù rimanda al famoso discorso nel quale Egli non disdegnava di lasciarsi "mangiare e bere" quale pane vivo disceso dal cielo e adesso ce ne da la possibilità concreta visto che in lui riscontriamo l'alimento necessario e sufficiente per accrescere il nostro itinerario di salvezza e intanto usufruire della carica di fiducia e di coraggio che esso ci accorda tutti i giorni quale alimento di vita piena. Nel cibo del pane di vita si trova sostegno nella lotta, costanza nei nostri propositi, esultanza negli obiettivi raggiunti, slancio nei nostri tentennamenti, vigore nelle nostre debolezze e indecisione poiché si tratta dello stesso Cristo che nella sua promessa di presenza costante intende caratterizzare tutta la nostra vita. Nell'Eucarestia si riconosce e si incontra l'intera comunità cristiana che esercita l'amore vicendevole e verso gli altri, realizza la comunione nel suo stesso ambito e con il Signore e trova nel pane eucaristico il lite motiv del suo progredire e nel suo aspirare al futuro lodando Dio per il presente. E trova soprattutto lo stesso amore di Dio che si è sacrificato sulla croce; una ragione per dire che la mestizia di quei volti al piano superiore di quella stanza si trasforma sin d'ora nella gioia infinita del Risorto. |