Omelia (05-04-2007) |
mons. Vincenzo Paglia |
«Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15), dice Gesù ai suoi discepoli all'inizio della sua ultima cena prima di morire. In verità, per Gesù, è un desiderio di sempre; e anche quella sera vuole stare con i suoi; quelli di ieri e quelli di oggi, noi compresi. È il suo ultimo giorno di vita, la sua ultima sera, l'ultima volta che sta con i suoi discepoli: se li era scelti, li aveva curati, li aveva amati, li aveva difesi. Gesù ha appena trentatré anni; è nel pieno della vita. Eppure, tra meno di ventiquattr'ore giacerà nel sepolcro. Questa sera il Signore desidera ardentemente stare con noi. E noi? Desideriamo stargli vicino, almeno un poco? Sappiamo offrirgli quel poco di compagnia e di affetto di cui è ancora capace il nostro cuore? Se guardiamo in faccia la realtà, c'è da dire che è stato sempre lui a fare di tutto per starci vicino, per legarci al Vangelo. Quante volte - come canta un antico inno «quaerens me, sedisti lassus?» («Quante .volte, Signore, ti sei seduto stanco, per la fatica di rincorrermi?»). Questa sera, l'ultima della sua vita, Gesù continua, in un supremo slancio di amore, a legarsi definitivamente ai discepoli. Abbiamo ascoltato dalle sante Scritture che si mise a tavola con i Dodici, prese il pane e lo distribuì loro dicendo: «Questo è il mio corpo, spezzato per voi». La stessa cosa fece con il calice del vino: «Questo è il mio sangue, sparso per voi». Sono le stesse parole che ripeteremo tra poco sull'altare, e sarà lo stesso Signore a invitare ciascuno di noi a nutrirsi del pane e del vino consacrati. Potremmo dire che Gesù ha «inventato» l'impossibile (del resto l'amore vero non sa creare cose impossibili?) per restarci accanto, per continuare a essere vicino ai discepoli di ogni tempo. Non solo vicino, addirittura dentro i discepoli: diviene cibo per noi, carne della nostra carne. Quel pane e quel vino sono il nutrimento disceso dal cielo per noi, uomini e donne pellegrini per le vie di questo mondo. Quel pane e quel vino sono medicina e sostegno per la nostra povera vita: curano le malattie, ci liberano dai peccati, ci sollevano dall'angoscia e dalla tristezza. Non solo. Ci rendono più simili a Gesù, ci aiutano a vivere come lui viveva, a desiderare le cose che lui desiderava. Quel pane e quel vino fanno sorgere in noi sentimenti di bontà, di servizio, di affetto, di tenerezza, di amore, di perdono. Appunto, i sentimenti di Gesù. La scena evangelica della lavanda dei piedi, che questa sera ci è stata annunciata, mostra che cosa significa per Gesù essere pane spezzato e vino versato per noi e per tutti. A cena inoltrata, Gesù si alza da tavola, depone le vesti e si cinge i fianchi con un asciugatoio, poi prende un bacile con dell'acqua, si dirige verso uno dei Dodici, si inginocchia davanti a lui e gli lava i piedi. E fa così con ogni discepolo, anche con Giuda che sta per tradirlo; Gesù lo sa bene, ma si inginocchia ugualmente davanti a lui e gli lava i piedi. Pietro forse è l'ultimo. Appena vede giungere Gesù accanto a lui subito reagisce: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Povero Pietro, non ha ancora capito nulla! Non ha compreso che a Gesù non interessa quella dignità che il mondo vuole e spasmodicamente cerca. Gesù, ancora una volta, glielo spiega: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come uno che serve» (Le 22,27). Gesù ama i suoi discepoli e ognuno di noi con un amore sconfinato, nel senso letterale del termine, davvero senza fine. La dignità per Lui non è nel restare in piedi, diritto, davanti ai suoi; la sua dignità è nell'amare i discepoli sino alla fine, nell'inginocchiarsi sino ai loro piedi. È la sua ultima grande lezione da vivo: «Sapete ciò che vi ho fatto? - dice alla fine della lavanda. - Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,12-15). Il mondo educa a stare in piedi ed esorta tutti a restarci. E se manca lo spazio, giustifica le spinte che cacciano fuori chi ci ostacola o ci è di impedimento. Il Vangelo del giovedì santo esorta i discepoli a chinarsi e lavarsi i piedi gli uni gli altri. È un comando nuovo. Non lo troviamo tra gli uomini. Non nasce dalle nostre tradizioni, tutte ben solidamente contrarie. Tale comando viene da Dio; è un grande dono che questa sera riceviamo. Gesù l'ha applicato per primo. Beati noi se lo comprendiamo! Nella santa liturgia di questa sera la lavanda dei piedi è solo un segno, una indicazione della via da seguire: lavarci i piedi gli uni gli altri, a partire dai più deboli, dai malati, dagli anziani, dai più poveri, dai più indifesi. Il giovedì santo ci insegna come vivere e da dove iniziare a vivere: la vita vera non è quella di stare in piedi, diritti, fermi nel proprio orgoglio; la vita secondo il Vangelo è piegarsi verso i fratelli e le sorelle, iniziando dai più deboli. È una via che viene dal cielo, eppure è la via più umana che possiamo desiderare. Tutti, infatti, abbiamo bisogno di amicizia, di affetto, di comprensione, di accoglienza, di aiuto. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si chini verso di noi, come anche noi di chinarci verso i fratelli e le sorelle. Il giovedì santo è davvero un giorno umano: il giorno dell'amore di Gesù che scende in basso, sino ai piedi dei suoi amici. E tutti sono suoi amici, anche chi lo sta per tradire. Da parte di Gesù nessuno è nemico, tutto per lui è amore. Lavare i piedi non è un gesto, è un modo di vivere. Terminata la cena, Gesù si incammina verso l'orto degli Ulivi. Da questo momento non solo si inginocchia sino ai piedi dei discepoli, scende ancora più in basso, se è possibile, per dimostrare il suo amore. Nell'orto degli Ulivi si inginocchia ancora, anzi si stende a terra e suda sangue, per il dolore e l'angoscia. Lasciamoci coinvolgere almeno un poco da quest'uomo che ci ama di un amore mai visto sulla terra. E mentre ci fermiamo davanti al sepolcro, diciamogli il nostro affetto e la nostra amicizia. Quanto sono amare quelle parole che disse ai tre che stavano con lui nell'orto: «Così non siete stati capaci di vegliare un' ora sola con me? (Mt 26,40). Oggi, più che noi, è il Signore ad aver bisogno di compagnia e di affetto. Ascoltiamo la sua implorazione: «L'anima mia è triste sino alla morte; restate qui e vegliate con me» (Mt 26,38). Chiniamoci su di lui e non facciamogli mancare la consolazione della nostra vicinanza. Signore, in quest'ora, non ti daremo il bacio di Giuda; ma come poveri peccatori ci chiniamo ai tuoi piedi e, imitando la Maddalena, continuiamo a baciarli con affetto. |