Omelia (06-04-2007)
mons. Vincenzo Paglia


Oggi tutto è spoglio, nella chiesa e sull'altare. Tutto è silenzio. La stessa liturgia è più silenziosa e tutti ci siamo prostrati, già all'inizio, sentendo una indicibile oppressione. È come crollato un grande muro e ora appaiono unicamente le macerie. Si sente solo un pianto: quello di Dio. Sì, Dio piange con quel singhiozzo, con quella reiterata insistenza, con quello sconforto, con quella immensa angoscia che potremmo somigliare alle nostre disperazioni dolorose. Se ci lasceremo toccare, nella liturgia odierna, dal pianto del Signore, non lo dimenticheremo più, e nulla sentiremo mai di maggiormente grande e triste. «Popolo mio, che cosa ti ho fatto, perché tu mi met­tessi in croce?» Così piange Dio, davanti a noi, come nessuna donna ha pianto sopra il suo sposo o sopra i suoi figli. «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta!». E, sgomento, il Signore continua a non darsi pace: «lo ho aperto davanti a te il mare, e tu mi hai aperto con la lancia il costato. lo ti ho fatto strada con la nube, e tu mi hai condotto al pretorio di Pilato. lo ti ho dissetato dalla rupe con acqua di salvezza, e tu mi hai dissetato con fiele e aceto. lo ti ho posto in mano uno scettro regale, e tu hai posto sul mio capo una corona di spine». Non si dà pace il Signore: «Che altro avrei dovuto fare e non l'ho fatto?». Questo pianto, tante volte è inascoltato. Presi come siamo da noi stessi, non lo sentiamo più. Ecco perché la nostra vita è spesso così arida e sciocca, e le nostre città sono così crudeli, soprattutto con i più deboli. Ognuno sembra come rinchiuso nel versare le lacrime solo su se stesso, sui propri guai, sul proprio destino. Lacrime sterili, perché non scendono in un terreno che dà frutti buoni, ma in quello dell'amore per sé che genera solo amarezza e violenza.

Quel giorno, come oggi, Gesù, chinato il capo, spirò. Forse a Gerusalemme non si parlava d'altro; la morte di questo singolare profeta doveva essere senza dubbio una notizia. Eppure chi troviamo presso la sua croce, a soffrire con lui e per lui, mentre egli soffriva per noi e a causa nostra? La maggior parte della gente, o lo malediceva, o diceva: «Ben gli sta»; una gran parte se ne disinteressava; e altri si limitavano a una compassione sterile. Moriva per gli uomini e nessuno, quasi nessuno, gli era accanto, a dirgli, almeno con un cenno, un grazie, a prendere atto della sua carità, ad accorgersi del suo amore. Da quel giorno sono passati duemila anni. Oggi, in questo giorno anniversario, il vero nostro dovere consiste nel non lasciare solo Gesù e accorrere sotto la sua croce. Dove sono quelle cinquemila persone che egli ha sfamato con il pane e che volevano persino farlo re? Dove sono quei malati che egli ha guarito nei suoi ultimi tre anni? E i dieci lebbrosi? E i suoi discepoli? E i Dodici? E noi? Noi siamo qui. Sì, è vero. Ma con quale amore? Accade spesso che molti cristiani non si rendono conto d'essere stati oggetto di tanto amore da parte del Signore, e si contentano di avere di Gesù una cognizione così vaga che si vergognerebbero di averne una simile di un loro conoscente.

Il dramma di questo giorno è proprio qui: il Signore, che ha dato la sua vita per noi, non è da noi amato. «O popolo mio, che cosa ti ho fatto di male? cosa non ti ho fatto di bene?». Questo lamento scende oggi dalla croce, per ognuno di noi. Chi di noi può dire di avere aiutato il Signore a portare la croce? Non quella nostra, s'intende, ma quella del Signore? Allora, per portare la croce di Gesù, costrinsero il povero Cireneo. È sempre il povero che porta la croce, allora come oggi. Lasciata cadere da chi dovrebbe portarla, essa finisce sulle spalle dei deboli. Nessuno, né della folla, né dei discepoli, si era offerto per Gesù. Le mani di tutti erano rimaste ferme, come rattrappite, oppure si erano tolte ogni responsabilità (quanti Pilato si sono lavati le mani durante la storia!), oppure per dovere avevano denudato, inchiodato, squarciato il cuore di Gesù. Le nostre mani sono nel numero di tutte queste mani, anche se vorremmo dimenticarlo, e purtroppo la vita convulsa della città ci aiuta nella smemoratezza. Per dimenticare queste nostre mani fredde e traditrici, abbiamo bisogno di guardare altre mani, di sostituire le nostre mani impietose con quelle misericordiose della Maddalena che lava i piedi di Gesù, di Giuseppe d'Arimatea che toglie il corpo dalla croce, di Maria che accoglie il corpo senza vita del Figlio. E se neppure questo riusciamo a fare, oggi imitiamo almeno le mani del centurione che si batte il petto o quelle della folla che si allontana battendosi anch'essa il petto per la propria incredulità e la propria complicità per la morte dell'unico giusto. La salvezza inizia di qui, dal pentimento che nasce guardando la croce.