Omelia (27-05-2007) |
don Marco Pratesi |
Farsi un nome o riceverlo? "Tu già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti quest'ultimo dono? (...) Sempre l'umanità mirò nel suo insieme ad organizzarsi universalmente. Molti furono i grandi popoli con una grande storia, ma quanto più elevati erano quei popoli, tanto più erano infelici, perché più fortemente degli altri sentivano il bisogno dell'unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, i Timùr e i Gengis-Chan, passarono come un turbine sulla terra, cercando di conquistare l'universo, ma anche essi, per quanto inconsapevolmente, espressero quello stesso potente bisogno umano di unione mondiale ed universale. Accettando il mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato il regno universale e dato la pace universale." (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov) Il rimprovero che il Grande Inquisitore rivolge a Cristo nel geniale e attualissimo brano dei Fratelli Karamazov esprime efficacemente, probabilmente meglio di tante esegesi, il senso dell'episodio della "torre di Babele" narrato in Genesi 11,1-9. In effetti il brano della Genesi ha presente proprio la tematica politica, in particolare la prassi dei re delle potenze mesopotamiche, che miravano a formare una compagine statale saldamente unita, e a lasciare memoria perenne del proprio nome attraverso costruzioni grandiose. Il testo dice: "avevano un solo labbro" (v. 1), che significa appunto: erano concordi, unanimi. L'unità risulta dal convergere delle varie genti verso un punto unico, la pianura di Sennaar (v. 2). È questo un movimento orizzontale e centripeto, che poi si tramuta per così dire in una impennata, in un movimento verso l'alto, verso il cielo: la costruzione della torre, "per farsi un nome". Notiamo che il testo non parla di individualità, di re: è proprio un meccanismo universale quello di cui si vuole parlare, un dinamismo che coinvolge ogni uomo e ogni tempo, la volontà di farsi un nome senza Dio. Se teniamo presente il significato del nome nella Bibbia, comprendiamo subito che questo significa in pratica: costruirsi una identità senza Dio. Il che per la Bibbia è una incongruenza, una contraddizione in termini, perché senza Dio non si trova un nome ma si diviene senza nome; si diventa non più qualcuno, ma nessuno. Il tentativo è destinato a fallire, non tanto per un intervento esterno di Dio, che viene a rendere impossibile una cosa in sé perfettamente plausibile, ma in se stesso. Certo, il testo sembra dire il contrario: "quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro" (vv. 6-7). Allora si può forse correggere l'affermazione precedente: nella nostra attuale esperienza (il testo si situa in una proto-storia) il progetto di Babele è irrealizzabile, perché cozza comunque contro un divieto di Dio che resta insuperabile per chiunque, singoli e gruppi (l'alternanza dei vari imperi e dei vari totalitarismi, che si contrastano e si soppiantano a vicenda sta lì a mostrarlo). Non si deve però omettere di notare che il divieto di Dio tutela l'uomo. Poiché un'umanità che arrivasse a convincersi di essere giunta a costruirsi un'identità senza Dio e fosse paga di essa, non potrebbe che fare della terra un inferno. Giacché l'inferno è per l'appunto il luogo dal quale Dio si vuole del tutto escluso. Si tratta in sostanza di una reazione di Dio di fronte all'orgoglio umano. E l'orgoglio umano non infrange solo i diritti di Dio, cosa che a più d'uno potrebbe importare poco, ma anche quelli dell'uomo. Questo rigetto divino va a tutto vantaggio dell'umanità: l' Antico Testamento non fa' che ripetere che l'orgoglio umano crea esclusione ed oppressione dei poveri. Libri come il Salterio sottolineano praticamente ad ogni pagina che Dio si fa difensore dei poveri nei confronti dell'arroganza dei forti. A questo progetto si dà il nome di Babilonia (teniamo presente che in ebraico Babilonia e Babele sono la stessa parola). Quando l'autore biblico ha voluto dipingere una città che esclude Dio e vuole edificarsi da sola, ha spontaneamente pensato a Babilonia, per eccellenza la grande città avversaria, che aveva conquistato Gerusalemme, distrutto il tempio di Dio, deportato gran parte del popolo sradicandolo dalla terra che Dio gli aveva donato. È dunque bene per l'umanità che fallisca questo progetto di "un formicaio indiscutibilmente comune e concorde" (Dostoevskij), è un bene che sia dispersa, è "medicinale", così come medicinale è la cacciata dei progenitori dall'Eden (Gn 3,22-24). Al posto di una grande unica città con un unico progetto, ecco tante piccole città, con la propria lingua, cultura, tradizione. È la situazione familiare allo scrittore biblico, quella che è per lui normale. Le varie identità culturali sono salvaguardate anche dalla difficoltà di comunicare, di entrare in contatto (che oggi sempre più tende a ridursi). In particolare Israele, piccolo popolo, spesso in diaspora, è da sempre impegnato a preservare la propria tradizione, impegno che avverte come un preciso dovere. E la costruzione di una identità comune non è cosa che competa all'uomo, ma opera di Dio. Soltanto da lui può venire il "nome nuovo" di Gerusalemme (Is 62,2). Attraverso la città santa e attratti verso il luogo della dimora di Dio, i popoli potranno non farsi, come si pretendeva a Babele, ma ricevere, anch'essi, un nome. La predicazione dei profeti, specialmente dopo l'esilio babilonese, individua sempre più chiaramente questa funzione universalistica di Israele. Un brano per tutti: Isaia 2,2-5. Addirittura lei, Babilonia, la grande nemica, potrà conoscere il Signore. Osa affermarlo il salmo 87: "Di te si dicono cose stupende, città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: 'L'uno e l'altro è nato in essa'" (vv. 3-5). I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |